Perdere l'ispirazione per poi ritrovarla nella Grecia lasciata sessant'anni prima e nella lingua materna, dopo aver scritto principalmente in svedese: un'esperienza profondamente umana, che Theodoros Kallifatides racconta nel suo "Una vita, ancora". Una recensione
Theodoros Kallifatides è uno scrittore di origine greca che vive in Svezia da ben 60 anni. Andò via dal suo paese nel 1964, a 26 anni, dopo aver fatto il servizio militare.
Credo lo abbia fatto emigrare la precarietà della vita di allora in Grecia, politicamente instabile, dopo i governi autoritari di estrema destra che avevano preso il sopravvento al termine, nell’ottobre del 1949, della lunga guerra civile tra comunisti e le forze governative.
Quest'ultime, presiedute dai monarchici agli ordini prima degli inglesi e in seguito, per la “dottrina Truman”, degli americani, volevano il presidio assoluto della Grecia, confinante a nord, in quegli anni di Guerra Fredda, con tutti paesi comunisti: l’Albania, la Jugoslavia, la Bulgaria. Mal tolleravano, pertanto, la forte presenza dei comunisti greci nel Paese che, a dispetto delle decisioni prese a Yalta dalle grandi potenze, lottavano per una Grecia alleata dell’Unione Sovietica. Una scelta, questa, non condivisa dallo Stesso Stalin, e in Occidente dall'italiano Togliatti e dal francese Thorez, che sostenevano la via parlamentare.
Le conseguenze della capitolazione da parte dei guerriglieri comunisti dell’Esercito Democratico guidato da Markos Vafeiadis furono devastanti: migliaia di comunisti si rifugiarono nei paesi comunisti, particolarmente in Romania, a Bucarest, che divenne la sede del Comitato Centrale del KKE, il Partito Comunista Greco, e a Takshent, in Uzbekistan, allora repubblica dell’Unione Sovietica, mentre altre migliaia finirono in carcere e nei cosiddetti Campi di Rieducazione Nazionale, a cominciare da quello famigerato di Makronissos. Ebbero così inizio quelli che i greci chiamano gli “anni di pietra”, durante i quali anche essere solo parenti o amici di militanti comunisti ti impedivano di occupare posti nella Pubblica Amministrazione e altre difficoltà relative alla vita sociale e civile.
Nel 1964 la vittoria elettorale dell’Unione di Centro, una formazione liberale guidata dal vecchio Ghiorgos Papandreu, aveva aperto nuove speranze. Ma ben presto la destituzione del grande statista - padre di Andreas e futuro fondatore del Partito Socialista Panellenico - da parte di re Costantino e su ordini della CIA, avrebbe creato una precarietà politica ed economica che avrebbe convinto molti greci, come appunto Theodoros Kallifatides, a emigrare (tre anni dopo, nel 1967, non dimentichiamo, tutto ciò avrebbe aperto la porta al colpo di stato dei colonnelli).
In Svezia, Theodoros, sarebbe diventato un grande scrittore, per altro in lingua svedese, pur non dimenticando la sua lingua natia e la sua identità greca, difesa anche nei confronti di quanti in Europa, solo dieci anni fa, in seguito alla bancarotta del Paese, criticavano i greci attaccandoli per il grande debito pubblico e dipingendoli nel peggiore dei modi.
Su questi e altri aspetti molto personali che hanno a che fare con la sua creatività, Kallifatides ha scritto un libro “Una vita, ancora”, tradotto da Carmen Giorgetti Cima per la Voland edizioni, in cui, tra le altre cose leggiamo del suo grande dolore nel vedere raffigurato il proprio popolo nelle vignette come un approfittatore della generosità degli europei: “Una vignetta umoristica pubblicata da un giornale olandese raffigurava un grasso greco in pigiama che con espressione sfacciata tendeva le mani verso l’Unione Europea. Con una elemosinava il denaro dei contribuenti, con l’altra mostrava il dito medio”. Ma durante un viaggio in Grecia in quegli anni lo scrittore restò impressionato nel rivedere un’Atene in cui la povertà non solo si vedeva, ma anche si sentiva.
D’altra parte, nella Svezia stessa assisteva a un cambiamento che gli faceva provare nostalgia per gli anni in cui Olof Palme governava dando benessere a tutto il paese, accogliendo i migranti, oggi diventati motivo di divisione e di reazioni politiche da sentirsi egli stesso, migrante della prima ora, messo in discussione. Si aggiunga anche l’età e, con essa, uno spegnersi della vena creativa che lo avrebbe fatto sentire come smarrito quando, mettendosi alla scrivania, ha avvertito l’ispirazione venir meno. Tanto da prendere la decisione, a un certo momento, di non scrivere più.
Oggi Kallifatides ha 86 anni, ma questa sua crisi è arrivata quando ne aveva 77. E racconta: “Quando ne parlai con la mia famiglia si misero a ridere. Mi ricordarono che era quello che dicevo sempre dopo ogni libro. Un paio di amici reagirono allo stesso modo. ‘Tipico comportamento da tossicodipendente’ commentò uno di loro ‘Ogni volta che si torna in sé si decide di smettere, per poi ricadere subito dopo nell’abuso’”. Ma, quella volta, non era così. Kallifatides porta l’esempio di scrittori come Göran Tunström o Simenon che, a un certo momento, si trovarono a non riuscire più a scrivere. Addirittura “uno scrittore gigantesco come Vilhelm Moberg preferì la morte all’impotenza artistica”.
Naturalmente, ha cercato molti espedienti per ritrovare la propria vena creativa. Finché non gli è arrivata la notizia dal suo paese di Molaoi in Laconia, nel sud del Peloponneso, della volontà di intitolargli il liceo locale dopo l’inaugurazione già di una via con il suo nome. Da qui l’invito delle autorità locali a essere presente all’inaugurazione.
Kallifatides, con la moglie svedese, Gunilla, ci va, assistendo ai festeggiamenti che prevedevano anche la rappresentazione di una tragedia di Eschilo da parte degli stessi studenti (solo in Grecia degli studenti possono rappresentare autori come Eschilo, scrive orgoglioso delle sue origini, della sua cultura).
E accade il miracolo: non solo Theodoros Kallifatides ritrova la sua vena creativa, ma dopo tanti anni si ritroverà a scrivere direttamente in greco un libro, questo “Una vita, ancora” che vi consigliamo di leggere. E che poi lo scrittore si curerà di tradurre in svedese. Scoprendo una verità profonda: “Ogni lingua è unica. Non si può scrivere lo stesso libro in due lingue diverse. Si scrive un libro che somiglia a quello che si è già scritto.”
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