Più fondi per l'accoglienza, più fondi sociali per i segmenti delle società accoglienti in sofferenza. Un'intervista all'eurodeputato Brando Benifei sulla gestione della crisi rifugiati in Europa
Da dove nasce il rapporto “L’inclusione sociale e l’integrazione dei rifugiati nel mondo del lavoro”, approvato dal Parlamento europeo il 5 luglio 2016 e di cui lei è stato relatore?
Il Parlamento europeo si è occupato fin dall’inizio della legislatura della questione dei migranti e dei rifugiati. Lo ha fatto con insistenza, anche mettendo i governi di fronte alla situazione di emergenza prima che scoppiasse in maniera così netta a partire dal 2015.
L’esigenza di scrivere un rapporto proprio sull’integrazione è quindi nata dalla considerazione che spesso su questi temi, sia della gestione dei flussi che dell’integrazione sul campo di chi arriva, l’Europa si è mossa troppo tardi e troppo poco. Serve un cambio di passo.
Quale l'elemento principale che emerge in questo rapporto?
La necessità di garantire risorse aggiuntive da ottenere anche tramite una ridistribuzione di quelli che sono gli interessi prodotti dalla Banca centrale europea all’interno dell’eurozona e attraverso una ricollocazione di risorse da altri capitoli di spesa europea, all’interno del capitolo del Fondo sociale europeo, dentro le politiche di coesione.
Servono infatti maggiori risorse per dare la possibilità a regioni ed enti locali di fare progetti con i fondi europei. Occorre evitare che con l’attuale situazione si vada a intaccare risorse che sono invece necessarie economicamente e socialmente a chi fa parte di altri gruppi vulnerabili fra gli abitanti autoctoni di quei paesi che fanno accoglienza, dai disabili ai disoccupati di lungo periodo. Più investimento sociale è fondamentale per evitare il razzismo.
Un’altra cosa centrale nel rapporto è la necessità di garantire servizi per il lavoro e l’integrazione in collaborazione con i privati per intervenire su chi può avere possibilità di essere integrato più rapidamente con corsi di lingua, con certificazioni delle competenze, con profilazione, con tutte quelle tecniche che a livello europeo esistono come buone pratiche per fare in modo che chi arriva ed ha poi diritto alla protezione, venga al più presto integrato nella società ospitante.
Quali esempi concreti possono essere fatti per evitare una guerra tra poveri?
Questi fondi per rifugiati e migranti hanno dimostrato nel tempo di creare ricchezza per tutti. Occorre dimostrare, con dati e numeri che sono già disponibili, che questo è un investimento da fare perché riguarda il futuro dei nostri paesi. Chi arriva qui può trovare – con politiche di integrazione efficaci - una dignità, una funzione e un’utilità per l’intera comunità.
Un esempio su tutti. I dati dell’Istat ci dicono che a livello pensionistico l’Italia non può reggere senza l’apporto dei migranti, perché i lavoratori di origine migrata danno un contributo al sistema pensionistico, e in generale al sistema del welfare, che lo mette in equilibrio in quanto danno più di quello che ricevono, perché spesso sono più giovani della media nazionale.
Cosa è necessario fare affinché ci sia una maggiore cooperazione tra le istituzioni europee e la società civile che lavora a diretto contatto con i migranti e i rifugiati?
Serve un agire responsabile di tanti attori. Innanzitutto i media devono parlare di più di questi temi anche con un’ottica razionale, raccontando i dati e le scelte che si fanno in maniera meno urlata e meno sensazionalistica.
Dall’altra parte tutte le istituzioni europee devono essere più accessibili, più raggiungibili da tutti i cittadini e quindi essere percepite nel territorio. Serve inoltre più visibilità per gli uffici che già esistono, gli Europe Direct, che permettono di conoscere cosa fa l’Unione europea e le opportunità a disposizione dei cittadini.
Ci può citare, a livello europeo, qualche strumento riuscito di integrazione?
Ne cito due di interessanti. Il primo è l’esempio italiano dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr), considerato un modello a livello europeo. E’ un meccanismo che realizza una buona distribuzione nel territorio, con l’accordo dei sindaci, con progetti gestiti insieme alle autorità politiche locali, e rappresenta un sistema che l’Europa ha adottato come buona pratica.
Nel caso dello Sprar sarebbe comunque importante che più comuni aderissero al sistema, anziché aspettare una situazione emergenziale gestita dalle prefetture che scarica di responsabilità l’ente locale, ma spesso costa di più e crea situazioni di grande disagio anche per la popolazione locale.
Un’altra buona pratica è l’utilizzo in maniera sistematica delle applicazioni per smartphone. Ce ne sono diverse ma una delle più significative è l’applicazione Ankommen, promossa dall’Agenzia nazionale di lavoro tedesca che permette di fornire ai richiedenti asilo e ai rifugiati informazioni sui loro diritti, i loro doveri, quello che devono fare, suggerendo come devono muoversi.
Il sistema si basa sul fatto che queste persone non hanno nulla, sono spesso in grande difficoltà economica, ma hanno con loro un cellulare. E' l’unico modo per rimanere in contatto con i loro cari e conoscenti. La questione dei rifugiati con il telefonino a volte viene mistificata, non capendo che è l’unico modo per loro per potere mantenere i contatti.
E' importante al contrario sfruttare il fatto che molti hanno un telefono con accesso a internet, per integrarli e risparmiare denaro rispetto ad altri strumenti. Le nuove tecnologie possono dare, se usate in maniera creativa, opportunità positive.
Affinché si trovi risposta a quanto suggerito nel rapporto è necessario si esca dall'emergenza e che gli stati membri adottino un approccio globale all'accoglienza....
Sarà possibile se il PE nel 2017 terrà alta, come lo ha fatto già negli anni precedenti, ma forse ancora di più, la priorità di completare il passaggio parlamentare - e poi con il Consiglio e con i governi - del Pacchetto per il trattamento delle persone provenienti dai paesi terzi, un pacchetto molto ampio della Commissione europea che abbraccia un approccio olistico e che cerca di trattare le questioni a partire da quello che riguarda la questione della partenza e dei rapporti con i paesi di provenienza fino alla questione dell’integrazione.
Mantenere alta questa questione nelle priorità legislative permette di arrivare presto a decisioni che vincolano tutti i paesi, anche quelli più recalcitranti ad una maggioranza che nonostante tutto, piano piano, mi sembra stia emergendo: quella di chi crede vi sia necessità di questa questione con responsabilità comune fra i paesi e con solidarietà anche all’interno degli stessi paesi, tra i territori, tra le persone.
Si tratta di un’emergenza che è diventata un fatto strutturale e quindi va affrontato con serietà e scientificità, perché implica una programmazione e una lungimiranza che a volte l’Europa in questi anni non ha dimostrato fino in fondo.
Questa pubblicazione/traduzione è stata prodotta nell'ambito del progetto Il parlamento dei diritti, cofinanziato dall'Unione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea.
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