Esce nelle sale italiane questa settimana “Darkling - Mrak” di Dušan Milić, un film che racconta il Kosovo nel marzo 2004, quando il paese fu colpito da una violenta crisi
I bambini serbi accompagnati a scuola dai carrarmati del contingente italiano della Kfor li avevamo già visti nel bel “Enklava - Enclave” (2016) di Goran Radovanović. Un film che raccontava i drammi del Kosovo con un tocco di leggerezza e tanto calore verso i ragazzini protagonisti, rivali loro malgrado. Torna su queste situazioni “Darkling - Mrak” di Dušan Milić, in uscita nelle nostre sale questa settimana, una coproduzione Serbia, Italia e Bulgaria.
Siamo sempre in Kosovo nel marzo 2004, con la crisi che portò a numerose azioni di kosovari per scacciare la minoranza serba soprattutto nel nord del paese. Milica è una bambina delle elementari che vive con la madre Vukica (Danica Curcić) e il nonno Milutin (Slavko Stimac, indimenticabile per i film con Emir Kusturica), in una casa isolata, dove hanno trovato posto dopo che la loro è stata bruciata. Il padre e lo zio sono scomparsi da tempo, sono usciti di casa e non hanno più fatto ritorno: Milutin chiede insistentemente ai militari italiani, che a loro volta compilano moduli, senza sortire effetto. La notte, l’abitazione circondata dal bosco si trasforma in un luogo da incubo, non basta il filo spinato tutto intorno a tenere lontane misteriose intrusioni. Milica si nasconde sotto il tavolo e scrive “al Presidente”, mentre il nonno cerca di rinforzare le protezioni. Quando trovano ucciso anche il vitello, la situazione diventa ancora più grave. Le famiglie dei dintorni se ne vanno una dopo l’altra, i compagni di scuola di Milica fuggono da un giorno all’altro senza neanche salutare. Tra i pochissimi bambini rimasti c’è Miloš, il miglior amico di Milica, che con lui ha concordato un linguaggio segreto, fatto di fischi come quelli dei merli, per comunicare a distanza. La sensazione di minaccia, mentre l’elettricità scarseggia sempre di più, cresce quando i soldati italiani (uno dei quali, Maurizio, parlava un serbo elementare) se ne vanno, rimpiazzati dagli americani.
La paura porta la famiglia ad asserragliarsi sempre più (per qualche verso ricorda “Home” di Ursula Meyer con Isabelle Huppert), rifiutandosi di lasciare il villaggio. Il dramma tende sempre più verso il thriller psicologico con punte horror (compaiono pure i serpenti, reali o no che siano) e un tocco western, in impazzimento e delirio progressivo. Le didascalie finali spiegato un po’ il contesto, in un film claustrofobico, quasi tutto collocato dentro la casa (e le colline si vedono solo attraverso gli spioncini dei carrarmati) che si trasforma in un fortino assediato. Tra le altre pellicole che può far tornare in mente c’è anche il georgiano “House of Others” di Rusudan Glurjidze, in versione ancora più cupa.
È in sala in questo periodo anche “Atlantis” dell’ucraino Valentin Vasyanovitch, che segue di poco l’uscita di “Reflection”, presentato in concorso a Venezia pochi mesi fa. Due film di forte impatto, anche crudi, di una delle rivelazioni del cinema di Kiev degli ultimi anni, che ha affinato uno stile vicino al nuovo cinema romeno, con lunghi piani sequenza e inquadrature frontali e pittoriche (il regista è anche direttore della fotografia). “Atlantis”, premiato come miglior film della sezione Orizzonti alla Mostra di Venezia 2019, immagina di essere nel 2025, “un anno dopo la fine della guerra” (come dice la didascalia iniziale), che si immagina vinta dall'Ucraina. Protagonista è Sergiy, un reduce traumatizzato dal conflitto, che torna al lavoro nell'industria siderurgica che è presto venduta agli americani e chiusa. In cerca di un altro impiego, l’uomo si sposta in una terra inquinata, compromessa e disseminata di fosse comuni e cadaveri putrefatti e incontra Katya, un'archeologa che si occupa di recuperare, ricomporre e riconoscere i resti dei corpi sepolti. Un film duro, potente, efficace sulla guerra, il dopo guerra e i suoi traumi, con alcuni momenti che si ricordano.
“Reflection” è invece ambientato nel 2014, “primo anno della guerra”, come recita un altro pannello introduttivo che suona purtroppo profetico. Un medico va al fronte per poter intervenire più prontamente sui feriti e finisce prigioniero dei filorussi dell’autoproclamata repubblica di Donetsk. Un film crudo, che mostra la violenza gratuita dei carcerieri, l’abbrutimento del conflitto, la stanchezza di infliggere crudeltà o far sparire i cadaveri e la sindrome post traumatica di chi torna a casa.
Sempre dall’Ucraina proviene “Bad Roads – Le strade del Donbass” (in originale “Pohani Dorogy”) di Natalya Vorozhbit, presentato alla Settimana della critica di Venezia del 2020. Nella pellicola si susseguono quattro storie, slegate tra loro ma accomunate dal ritrarre un'area in guerra dove si sono persi i punti di riferimento: si parte da un preside ubriaco che in auto è fermato a un posto di blocco ma ha dimenticato il passaporto, per arrivare a una donna che ha investito una gallina e non ha i soldi per risarcire i proprietari, passando per uno stupro. Una pellicola tra il tragico e il comico, pendendo verso il primo, che ricorda per struttura e stile i lavori di Balabanov e Loznitsa, ma è pure una voce personale per raccontare la violenza e l'assurdità di un'Ucraina già profondamente divisa prima della tragica invasione russa.
Altra uscita di questi giorni il documentario “Brotherhood” di Francesco Montagner, premiato a Locarno lo scorso anno. Il regista veneto segue tre fratelli adolescenti bosniaci che fanno i pastori e cercano di studiare mentre il padre, imam fondamentalista, sconta una condanna in carcere. Un film sulla crescita, sul cercare di affrancarsi da un’educazione repressiva e un ritratto di una Bosnia rurale.
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