Le origini della gjitonia e nuove possibili forme di gjitonie nei paesi del sud Italia che si stanno spopolando. Un viaggio nei luoghi arbëreshe di Calabria ad ascoltare storie e canti
La gjitonia è una parola che fa parte del vocabolario della lingua arbëreshe, una lingua in via d’estinzione ma ancora parlata in 24 paesi della Calabria. 19 sono i paesi in cui ancora tra gli abitanti quando ci si incontra e si vuole scambiare quattro chiacchiere nelle piazze e per le strade si parla in arbëreshe, negli altri cinque si conservano le tradizioni di questa antica cultura ma non si parla più.
Non è che agli abitanti di questi villaggi si sia seccata la lingua, è che lentamente e come tanti paesini del sud Italia, si stanno spopolando; la gente, i giovani vanno a vivere fuori, chi all’estero, chi nei grandi centri dell’Italia del nord, e i pochi che rimangono perdono la motivazione a parlare in questa loro lingua di origine, perché manca la gjitonia… la gjitonia è morta, la gjitonia che c’era un tempo è finita.
Stare insieme
E che cos’è questa gjitonia, questa strana parola che si pronuncia con una g stretta tra i denti e la lingua e termina con l’accento sulla i di ia?
Italo mi spiega che è un termine antichissimo che significa stare insieme, condividere insieme la quotidianità, e che nasce proprio nei paesi quando le donne dopo aver svolto le funzioni domestiche nelle loro case, aprivano la porta e si incontravano nelle piazzette a parlare, ricamare, raccontare storie e leggende, mettere ad essiccare al sole i legumi o altri alimenti, cantare.
Infatti il principio della parola gji mi evoca la parola gynae che in greco significa donna, ed allora, mi viene da pensare che alcuni termini di questa lingua forse hanno radici greche. E può essere sicuramente che le abbiano, questi popoli abitavano nell’antica Morea, in quella bukura Morea che cantano ancora dopo cinquecento anni e più. Queste genti dei piccoli villaggi di questi territori di Calabria, scapparono dalla loro terra per sfuggire dall’attacco dell’esercito ottomano che arrivava per invadere i loro paesi, il loro mondo antico, la loro gjitonia. Mi immagino allora le barche di legno che salpavano dalla Morea piene di donne, uomini, bambini e le onde del mare e il vento del Mediterraneo nelle loro facce, le loro mani vuote, niente più terra, niente più casa, niente più affetti né cose quotidiane ma nel cuore tanta nostalgia. Me li immagino ondeggiare in questo pezzo di Mediterraneo che separa l’attuale terra d’Albania dalle coste ioniche della terra calabra, me li immagino approdare bagnati e infreddoliti sulle spiagge dell’antica Sibari, di Villapiana, dell’attuale Corigliano Calabro. Ed ora arrivati in queste terre straniere come fare a ricostruire quella gjitonja? Senza casa, senza lavoro né cibo?
Questa storia mi sembra di conoscerla, mi sembra così attuale! Mentre me la figuro nella mente sento che tutte le parole che cerco di pescare per raccontarla, sono proprio, ma proprio uguali alle parole che interessano altri popoli che oggi scappano dalle loro terre e che muoiono in mare, che se arrivano, arrivano a mani vuote sulle spiagge di queste coste come il popolo arbëreshe ha fatto seicento anni fa.
Così, come ora, dopo lo sbarco, queste genti piano piano hanno ricostruito un nuovo mondo, con nuove case e nuove vite dentro; ma non dimenticandosi dei loro profumi, dei cibi semplici che mangiavano nella bukura Morea, ed allora le stanze si riempivano di profumi di dolci e tradizioni e le piazze costruite sui pendii scoscesi dei monti alle pendici del Pollino e della Sila brulicavano di bambini, di ragazzi, di uomini e donne. Le stradine dei paesi e le case con le nuove vite dentro si riempivano di quella lingua originaria delle terre d’Albania e di Morea che arricchiva con nuovi lemmi portati da al di là del mare la lingua trovata nella nuova patria. Lentamente si iniziava a ricostruire delle vite. E con un nuovo linguaggio iniziava il lavoro: della semina, della cura della terra, della raccolta del grano e delle olive e nella fatica quotidiana c’era la gjitonia il riconoscimento dell’individuo nella comunità attraverso la condivisione del canto e del cibo, dei saperi e delle atmosfere legate ai cicli stagionali.
Pietre
Ad Acquaformosa incontro un gruppo di cantori di radici arbëreshe. Si chiama Shkembi che in arbëreshe significa pietra. Le voci di alcuni del gruppo sono pietre dure smerigliate in tantissime sfaccettature e sfumature alte e presenti, squillanti e cariche di storia. Entro in casa di Rosa, la casa si trova all’inizio del paese come ad accogliere i viaggiatori, mi accompagna Italo che conosce bene i componenti del gruppo. Italo è il mio buon Virgilio in questi giorni di viaggio e di scoperta della cultura arbëreshe di Calabria. Un Virgilio a cui tutti i cittadini aprono le porte perché lo conoscono da tanto, da quando da giovane girava con il suo registratore alla scoperta dei canti e dei diversissimi vjershe.
Le voci di Rosa Nicola e Cesare sono vive come frutti vivi di un albero antichissimo e sono germogliate trent’anni fa. I cantori li vedo, li ho davanti a me, mi parlano e mi dicono che hanno deciso di formare questo gruppo per studiare i canti delle loro radici e che da piccoli li ascoltavano cantare dalle loro mamme, dalle loro nonne. Hanno sentito l’urgenza di salvare quelle intonazioni dalla dimenticanza ed ora li studiano come fossero testi preziosi, la chiave per leggere un mondo, gli usi, il fare, il sapere che altrimenti sarebbe impossibile tenere alla mente. Nicola, prima di ogni canto mi spiega il motivo per cui si intonava e tra le tante storie mi rimane impressa la piazza di Acquaformosa alle tre del mattino piena di donne invasa da un richiamo che le avrebbe portate da lì a breve nel campo a faticare. L’aria della mietitura del grano airj dhomatevet, e poi c’è l’aria delle olive airi ullinjevet, l’aria delle castagne airi keshtenjavet e chissà se nelle terre d’Albania esisteva ed era così preziosa la castagna? Perché qui è un dono preziosissimo e serve, ed è servito per il sostentamento di tutte queste genti, la castagna marrone e grande della Sila. E mentre li ascolto mangio le castagne arrostite imbevute di liquore, un’invenzione culinaria di Rosa e bevo rakja albanese… Io penso a questo e penso alla gjitonja delle donne che mentre mettevano le castagne ad essiccare al sole cantavano quel canto d’amore che si intitola proprio “Kishnja nje molle a nje keshteni” solo una mela e una castagna ti dono come simbolo di un amore che ti sto cantando.
Terra d'arberia
Italo ed Alfio, a San Benedetto Ullano un altro paese in terra d’arberia e patria di Italo, mi aiutano a entrare in contatto vivo con i loro ricordi cantandomi a facendomi ascoltare i canti che si facevano una volta in queste gjitonje dove c’era il tempo per conoscersi e per innamorarsi ed allora capisco una delle funzioni del canto, l’amore.
Il canto serviva a sciogliere le timidezze di ragazze e ragazzi in età da marito che dovevano, come volevano le regole della civiltà contadina, affrontare il momento di passaggio dalla vita adolescenziale alla fase adulta in qualche modo già stabilito dalla comunità. Il rito del canto era necessario per fare quei passi che dal fidanzamento portavano alle nozze e alla costituzione di un nuovo nucleo familiare. Il canto serviva come avvertimento anche per gli altri componenti della comunità, serviva ad avvertire che si stava formando una nuova famiglia che c’era un passaggio della vita che andava riconosciuto pubblicamente.
A San Demetrio Corone, parlo con Demetrio detto lo “Scarparicchio” perché nella sua vita ha fatto sempre il calzolaio anche quando è dovuto emigrare in Germania per trent’anni, quando qui da noi non c’era lavoro e si moriva di fame e allora in arbëreshe si cantava bukuri katundi un canto di nostalgia per la propria terra quando in Argentina, in Brasile, in Germania si voleva provare a ricostruire ancora una volta una comunità e mancava quell’atmosfera del paese che si era dovuto lasciare.
Demetrio racconta e mi dice che faceva il ruffiano, ossia aiutava con la sua voce gli amici a fidanzarsi, si metteva con il gruppo dei ragazzi della sua compagnia sotto la finestra della diretta interessata e cantava, cantava fino al mattino, cantava fino a perdere il fiato, cantava i vjershe (che in arbëreshe significa canti d’amore improvvisati su delle melodie note e tramandate di generazione in generazione) cantava Demetrio fino a far accendere il fuoco nel cuore della ragazza che ad un certo punto scostava le tende della finestra di casa e sorrideva timida. Quel sorriso voleva dire tante cose, un anno di fidanzamento o forse più e poi il rito del matrimonio che li avrebbe uniti. Ma Demetrio ci tiene a dire che lui non portava i calzini rossi. Io gli chiedo il perché e lui mi risponde che il ruffiano doveva portare i calzini rossi per farsi riconoscere ed io rimango stupita e mi si spalancano gli occhi ma a lui, a Demetrio il canterino, così lo chiamavano non servivano quei calzini perché il suo canto era una strada, una bandiera, un’esplosione di emozioni che avrebbero fatto accoppiare anche le pietre di quella terra così arsa d’estate e così ventosa nei mesi di autunno e primavera, e ci credo! Penso io, ha ottanta anni e guarda che bel viso, che occhi vivi e attenti che lasciano trapelare una leggerezza intensa così come si dovrebbe vivere la vita. E allora cammino per la strada che separa san Demetrio Corone da Macchia albanese, voglio arrivare nel paese di Girolamo De Rada come ho fatto l’anno scorso quando ancora conoscevo poco di queste comunità quando seguendo quello che mi diceva la mia pancia scesi per la prima volta e incontrai Pino, Italo e Alfio.
Ma sbaglio strada e mi rendo conto di camminare lungo la statale che va da san Demetrio a San Nicola… Dall’applicazione di google maps sul mio smartphone mi accorgo però che c’è una stradina interpoderale che ad un certo punto dovrebbe intersecare la statale e che dovrebbe portare al paesino del poeta. Allora la piglio e cammino velocemente, quasi correndo, guardando le terre rosse dei pendii da una parte e dall’altra e i prati ancora verdissimi nonostante sia autunno inoltrato, e i gelsomini di quel colore indecifrabile tra il rosa antico e il fucsia che spuntano fieri e gli alberi di ulivi e i loro tronchi nodosi diversi da quelli umbri che sono più lisci anche se hanno le stesse dimensioni come se sembrassero più antichi come a dire, ci siamo da più tempo qui in mezzo a questi boschi. Allora con il fiato in gola di questa domenica di ottobre mi inerpico per la salita verso Macchia albanese. Telefono ad Italo e gli dico: Italo guarda che sto per arrivare a Macchia vieni a prendere un caffè, dai che ci vediamo al baretto del paese. Non mi posso dimenticare di quel bar perché lo scorso anno ci sono arrivata bagnata dai capelli fino alla punta dei piedi, pioveva e c’era un vento fortissimo e l’ombrello si è rotto subito e io la pioggia l’ho presa tutta. Il barista ci prepara il caffè mentre io gli domando se si ricorda di me e di quando arrivai con gli abiti inzuppati lo scorso anno, lui dice si. Ma è di poche parole il barista e gentile ci serve i caffè.
“Amore, tu fuoco non sei che dall’uomo provenga come da lui non è il giorno, ma un padre insieme vi accese onde per voi si accostassero i figli per cui fece il mondo, voi grazie di vita che il cielo beato a sé vincola a cui vi serbate in eterno”.
Questo pezzo di poesia mi fa innamorare del poeta, del suo popolo, delle persone che ho vicino, mi fa accendere un fuoco, mi fa appassionare alla vita, mi chiedo: caspita chi è questo padre che fa diventare fuoco l’amore? Io non sono credente eppure questo fuoco lo sento, chi è questo padre? Per chi sono scritte queste parole, chi aveva in mente Girolamo quando le ha scritte? Chi era il suo amore? Alcuni testi che ho letto in particolare un articolo di Vincenzo Belmonte intitolato “Il segreto del De Rada”, pubblicato nell’agosto 2008 dice che questo poema è stato dedicato ad un amore adolescenziale per un ragazzo con cui studiava insieme al collegio di S. Adriano e che mai Girolamo abbia amato qualcun altro più di questo amore segreto che nascondeva a tutti. Girolamo aveva un padre autoritario e ad un certo punto dovette seguire le regole e farsi una famiglia, ma la sua sensibilità lo portava altrove, lo portava a quel tempo antico in cui il solo pensiero era quello di condividere il tempo della pausa dagli studi duri del collegio con il suo compagno di vita sotto gli alberi del parco, alla luce del sole caldo che gli infiammava il cuore e questo momento lo ha portato con sé tutta la vita anche quando nei giorni normali da adulto e da anziano con il suo asino partiva da Macchia per andare a sua volta ad insegnare alla scuola alle generazioni future.
Girolamo De Rada
Girolamo De Rada è il grande poeta che la comunità di Calabria riconosce come portatore di questa identità, Italo mi dice che Girolamo non è mai stato in Albania ma che l’ha cantata in una sua opera famosissima che è il Milosao, mentre camminiamo per il paesino ci imbattiamo nel busto del poeta eretto sulla piazza al fianco della chiesa. Sul basamento della statua c’è scritta una frase in arbëreshe. Chiedo ad Italo di tradurmela, lui si avvicina e mi dice che è scritta in un arbëreshe poetico e che ci deve pensare un po’. Intanto dalla chiesa escono delle voci di donne, sono i canti della funzione domenicale, le donne cantano qui i canti religiosi di rito bizantino. Entriamo ed Italo mi porta a passo sicuro nella navata destra della chiesa proprio in prossimità dell’iconostasi, là alla tomba del De Rada. Ci fermiamo un po’ in silenzio e poi usciamo e dopo qualche metro siamo di fronte alla casa dove abitava Girolamo. Bisogna passare sotto un portico abitato da una decina di gatti che con gli occhi sorpresi ci fanno strada scomparendo piano piano ad uno ad uno… c’è un odore di muffa e umido, un odore di paese abbandonato, quell’odore che hanno le pietre ricoperte di muschio in autunno.
C’è una grossa pietra tonda è una vecchia macina di mulino con su inciso il nome del poeta appoggiata alle scale esterne che salgono all’ingresso della casa. Una donna del paese si avvicina e ci dice che solitamente la casa è aperta perché arrivano le nipoti la domenica e la aprono e che la casa ospita gli arredi originali, qualche scritto e alcuni libri di poesie. Per entrare in casa si devono salire le scalette in mattoni ma noi non saliamo perché stranamente come dice la signora oggi non è venuto nessuno. Usciamo dal portico ed entriamo nell’unico negozio di generi alimentari del paese che invece, a differenza della casa del de Rada, la domenica è aperto. E dentro c’è un po’ di tutto, dai torroncini calabresi, ai generi alimentari necessari, ad articoli di sali e tabacchi, alle cartoline. Stupita mi avvicino all’espositore e vedo le cartoline del paese di Macchia con i suoi piccoli borghi e qualche veduta del paese dalle campagne circostanti, ed immancabile stampato c’è quel busto in bronzo come un guardiano a custodire quel piccolo villaggio tra gli ulivi. Scendiamo, torniamo al bar; so che questo pezzo di racconto è leggermente lungo e descrittivo ma la narrazione è funzionale come un canto a spiegare il concetto di gjitonia e a comprendere il perché è una parola che sta scomparendo perché ne sta scomparendo la funzione.
Il vuoto
Davanti al bar incontriamo un gruppetto di uomini che parlano tra loro, Italo si avvicina per salutarli, lui li conosce, come dicevo prima tutti lo conoscono, è una vita che gira per i paesi della sua Arberia a ricercare i materiali, i documenti, come un cercatore di perle preziose pronto da inanellarle in una collana. Mi presenta a quel crocchio di signori come una ricercatrice venuta da Roma. Li saluto e loro con un fare di chi ha perso le speranze mi dicono che qui non c’è più nulla, che il paese è vuoto, e chi cantava prima è morto e che i giovani non ci sono e gli abitanti che sono rimasti non cantano più perché non hanno nulla di che cantare. E io capisco che anche lì la gjitonia è finita da un pezzo, le case vuote, le piazze vuote, tutto quasi abbandonato. Allora mi viene in mente un paese a due passi da questi villaggi, un paese che si chiama Riace in cui un sindaco da anni ha accolto popoli di altre culture ed ha fatto sì che una nuova gjitonia rinascesse. Una gjitonia fatta di gente di culture diverse che si trova a riabitare insieme quelle case prima abbandonate. E glielo dico, gli chiedo se conoscono Riace e la sua storia e anche dentro di me si accende una luce che mi fa collegare le due storie, la storia degli arbëreshe che cinquecento anni fa approdarono nelle coste dello ionio calabro e le storie di queste genti che sbarcano con i piedi proprio sulle stesse spiagge della costa.
E allora domando loro: ma se arrivasse un sindaco come questo sareste contenti? Allora spaesati mi guardano e mi dicono be' forse noi vorremmo che tornassero i nostri giovani, che tornassero a riabitare queste terre, e che tornasse il lavoro così da permettere alle famiglie di vivere, non come adesso che non c’è più nulla. Allora io rispondo ma se al posto degli arbëreshe che ormai se ne sono andati arrivassero dei nigeriani, degli afghani, dei senegalesi, degli algerini, dei curdi e si insediassero qui e ci fossero delle politiche tali da far nascere nuove forme di lavoro? Ma noi non vogliamo perdere la nostra identità risponde qualcuno, vogliamo che la nostra identità sia preservata, che si continui a parlare arbëreshe tra i giovani… ed io rispondo che intanto una cosa importante da fare è provare a far rivivere queste case e che forse nuove comunità e nuove culture riportando la vita porterebbero anche una gjitonia, certo una nuova gjitonia fatta di meticciati, di mescolanze dove forse all’interno di queste mescolanze ogni identità diversa verrebbe fuori con più fierezza.
Qualcuno annuisce in silenzio, allora Damiano Cingone uno dei componenti dell’associazione culturale Girolamo De Rada che stava ad ascoltare in silenzio mi dice di seguirlo che ha alcune cose da darmi e da mostrarmi. Io ed Italo lo aspettiamo all’angolo davanti al tabernacolo di San Francesco da Paola, lui torna dopo qualche minuto con due libri del poeta me ne fa dono e poi mi dice: “Guarda ti mostro una cosa, l’avete vista la pietra su cui Girolamo De Rada saliva da anziano per saltare in groppa al suo mulo per andare ad insegnare a San Demetrio?” No faccio io, e allora andiamo da lui. Damiano ci conduce di nuovo davanti casa del poeta e ci mostra il blocco di pietra, ci sale sopra e fa il gesto che faceva De Rada per salire a cavallo. Dice: “Era bassetto il De Rada” e sorride... ed io in questo sorriso e in questo gesto ci sento un’energia che mi suggerisce gjitonia, accoglienza, desiderio di condividere. Il 7 novembre il presidente Mattarella farà visita [il testo è stato scritto prima di questo evento, ndr] a queste comunità insieme al presidente dell’Albania Ilir Meta in occasione del 550esimo dell’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Skanderbeg.
I due presidenti si incontreranno a San Demetrio Corone ma già si vocifera che sarà un incontro blindato. E la gjitonia? Penso io. È possibile che in questo incontro che ha come obiettivo l’apertura della comunità italo-arbëreshe alla comunità albanese con l’intento di sancire il legame esistente tra i due popoli non si svolga tenendo in considerazione quella particolare atmosfera che faccia sentire tutti parte di una comunità? Dovrebbe essere una grande festa! Una festa nella piazza di San Demetrio che è abbastanza grande da accogliere le genti di quei ventiquattro paesi e i loro gruppi di cantori ancora vivi! Quella piazza dove sfila il 25 di ottobre il cavallo colorato del Santo. Pensa che bello vederla piena di gente e i gruppi di cantori di Lungro, di San Benedetto Ullano, di Acquaformosa cantare i canti diversissimi e i vjershe dei vari paesi?! E mi torna in mente la serata passata insieme ai cantori di San Benedetto Ullano a casa di Alfio e quella gjitonia intima davanti al camino. Ma allora questa gjitonia è viva o è morta? Io la sento in chi è rimasto, in questi gruppi di genti che ho conosciuto ancora presente, la sento nella necessità fortissima di Italo di far nascere un istituto dove si studia la cultura arbëreshe, la sento nel suo desiderio di farmi conoscere i portatori autentici della cultura, la sento nelle voci del gruppo di San Benedetto Ullano, nella voce di Ines femminile e penetrante che si inserisce nel coro come un’aria fresca, la sento nella voce di Rolindo che trema e che sembra un'eco che attraversa i campi, i vigneti, i castagneti, i boschi i campi di ulivi dai tronchi nodosi, la sento nella voce di Franco che segue presente le modulazioni del canto, la sento nel racconto di Alfio che conduce il gruppo e che apre la sua casa e accende questo fuoco con le sue narrazioni liriche che prendono tempo, quel tempo necessario all’ascolto delle storie e delle emozioni, la sento in quella frase che un giorno mi disse: “Non si può essere felici da soli”.
Post scrittum: due anni fa mi trovai a passare per l’Albania diretta in Macedonia, in autobus incontrai una giovane donna di Durazzo. Diventammo amiche anche se per pochissimo tempo. Rimando al racconto “La chiave di sol” pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso, che scrissi dopo il viaggio e che racconta la storia del mio passaggio in terra d’Albania e la storia di un incontro. Mi ero prefissata di tornare e rimanere un po’ di tempo in questa terra, scendendo in Arberia in un certo senso l’ho fatto, ho conosciuto le radici antiche dell’Albania balcanica ed ora ne custodisco i legami. Realizzerò a breve un videoracconto con le testimonianze raccolte dalle persone che Italo mi ha fatto incontrare durante i giorni della mia permanenza nei paesi di cultura arbëreshe e che sono i preziosi portatori di questa cultura antica.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!