Florence Nightingale

Sabato scorso si è tenuto a Lucca il convegno "Dove va l'aiuto umanitario? Ascesa e crisi dell'aiuto umanitario tra ambiguità e solidarietà". Molte le organizzazioni non governative italiane presenti. A parlare di sé

02/12/2003 -  Andrea Rossini

Dove va l'aiuto umanitario? Nell'epoca delle organizzazioni non governative (ong) "embedded", cioè al seguito delle truppe nelle guerre - per l'appunto - "umanitarie", è questa la impegnativa domanda che Ics (Consorzio Italiano di Solidarietà), Provincia di Lucca e Scuola per la Pace hanno posto al mondo della cooperazione italiano. Al centro del dibattito la crisi - finanziaria e di legittimità - delle ong, e le relazioni pericolose venutesi a creare tra politica, media, militari e interventi umanitari. Punto di partenza della discussione - come affermato nel documento introduttivo di Giulio Marcon, presidente di Ics - la ricerca di un nuovo fondamento etico e politico dell'operare, di un nuovo codice di condotta che abbia la autonomia come principio guida, la affermazione di un intervento che sappia sempre coniugare il legame tra effetti e cause delle crisi nelle quali le ong si trovano ad operare.
 
Il convegno di Lucca riprende un dibattito avviato due anni or sono da Osservatorio Balcani (v. Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive), arricchito in questa nuova fase dagli elementi introdotti dopo il Kosovo dalle crisi in Afghanistan e Iraq. Sabato a Lucca sono intervenuti in molti, proviamo ad articolare una sintesi della discussione attorno ai punti che hanno attraversato tutti gli interventi dei relatori.
Indipendenza

Indipendenza (Carlo Garbagnati, Emergency) politica e finanziaria coincidono, ma l'autofinanziamento è possibile solo quando i media accendono i riflettori su di una data situazione. Sul campo, la indipendenza si ottiene solo con la opposizione alla guerra. In caso contrario sei per uno dei due contendenti. L'aiuto umanitario (Raffaele Salinari, Terre des Hommes) è entrato in crisi non per la perdita di indipendenza, ma perchè è entrato in crisi il diritto internazionale, sotto il fuoco incrociato di nuova destra Usa e terrorismo. Le convenzioni internazionali non sono più applicate, e chi cerca di praticare l'aiuto umanitario risulta schiacciato.

Negli ultimi dieci anni (Loris de Filippi, Medici Senza Frontiere Italia) ci sono stati tre tipi di crisi: quelle in cui la comunità internazionale è intervenuta; quella nella quali è stata coinvolta; quelle dalle quali si è astenuta. Quante ong sono intervenute in questi anni in crisi del terzo tipo, come in Cecenia o in Algeria? Neutralità ed indipendenza devono essere criteri che guidano anche la valutazione delle aree in cui intervenire. L'indipendenza si persegue (Toni Vaux, Oxfam, autore de "L'altruista egoista") ponendo un limite ai fondi che si ricevono da un governo (max 30%); avendo principi chiari, sulla base dei quali prendere le decisioni rispetto alle proposte dei donatori; mantenendo la imparzialità tra le parti in conflitto. Imparzialità non significa neutralità o distacco, ma essere dalla parte delle vittime e non intervenire solamente dove ci sono i soldi. Tra ong e ditte private i confini si stanno assottigliando: entrambi sono "contractors" di governi.

La crisi delle ong (Paolo Dieci, Cisp) è dovuta alla sovraesposizione mediatica e politica, e alla assunzione di compiti impropri. La nostra legittimità (Giorgio Cardone, Ics) non consiste nella capacità di raccogliere fondi o nell'essere in televisione, ma nella onestà intellettuale nostra e dei nostri dirigenti, nell'essere forse meno presenti nei vari Paesi in giro per il mondo e più presenti nel nostro. Non è sufficiente raccogliere aiuti in forma privata per affermare la propria indipendenza (Carlo Malavolti, Cospe): i fondi - privati o pubblici - sono sempre condizionati, e si raccolgono solamente su argomenti di attualità. E' necessaria invece una battaglia perché i fondi pubblici siano gestiti democraticamente. Tutte le raccolte fondi (Fabio Alberti, Un ponte per) sono orientate dalla televisione.

Neutralità o politica 

Le ong sono portatrici di progetti politici. Per la neutralità c'è la Croce Rossa (Fabio Alberti, Un ponte per). Rivendichiamo il nostro operare tra nord e sud del mondo, che ha favorito la nascita di movimenti ed esperienze come quella di Porto Alegre. Chi in Iraq non ha accettato di cooperare con le forze militari non lo ha fatto per una pretesa neutralità, ma perché con gli occupati contro gli occupanti. Le ong devono essere neutrali (David Rieff, giornalista, autore de "Il paradosso umanitario"), che legittimità hanno per fare politica? Se non c'è neutralità non può esserci aiuto umanitario, può esserci qualcos'altro. Dobbiamo chiederci perché oggi in Iraq (Joe Washington, Università di Pisa) le ong sono diventate target.

Noi non siamo né neutrali né imparziali (Eugenio Melandri, Campagna Chiama l'Africa), lavoriamo nel nostro settore con un progetto globale di cambiamento. Basta con gli aiuti e basta (Carlo Malavolti, Cospe), bisogna fare chiarezza tra emergenza e cooperazione. Noi facciamo parte del Cocis, gruppo di ong intenzionate a rimanere aderenti ad un concetto di cooperazione come fatto politico, modo di stabilire relazioni internazionali che comprenda la volontà di cambiare, siamo contro approcci assistenziali che non si sforzino di avviare processi endogeni che affrontino le cause dei problemi.

Le risorse umane e il fascino delle ong

Le ong si comportano al proprio interno secondo le stesse modalità che affermano di voler combattere (Gianni Rufini, Fields). I problemi non sono solo fuori ma anche dentro (Edoardo). Da 10 anni cerco di far capire a chi me lo chiede che non sono un volontario (Giorgio Cardone, Ics), ma che questa attività per me è un lavoro. La competizione sul campo tra le ong per accaparrare fondi è oscena (Angela Mackay, Fields). Bisogna fare qualcosa di buono ma anche in condizioni buone dal punto di vista delle risorse umane, avere un buon management, salari e un ambiente professionale, mantenendo attenzione alla questione di genere.

Sono più di 3000 (Gianluca Antonelli - Vis, Volontari per lo Sviluppo) gli studenti che oggi in Italia seguono masters e corsi di laurea sulla cooperazione allo sviluppo. Il nostro settore è al centro dell'attenzione. Cosa faranno tutte queste persone dopo l'università? Voce dal pubblico: niente. Per una posizione all'interno di Amnesty (Marco Bertotto, Amnesty Italia, Ics) abbiamo ricevuto in questi giorni più di 800 curriculum di persone che provengono anche dal profit e sono pronti a vedere ridotto il proprio stipendio attuale anche dei 2/3.

Dove va l'aiuto umanitario? 

Dove ci sono i soldi (Gianluca Antonelli, Vis).

Lo stato delle cose

Il nuovo umanitarianesimo deve essere più legato alle esperienze locali e al tempo stesso più assertivo sul piano politico generale, sull'esempio di associazioni come Greenpeace. Il sistema dell'intervento umanitario (Claudio Bazzocchi, autore de "La balcanizzazione dello sviluppo") per come si è venuto configurando negli ultimi anni ha avuto come obiettivo quello di porre fine alla sovranità degli Stati e di rendere l'aiuto pubblico allo sviluppo uno strumento per imporre piani di aggiustamento strutturale, sostituendo ad una società civile "luogo dove le classi subalterne creano gli strumenti per trasformare la situazione" una asfittica "classe media dell'aiuto umanitario".

Le crisi non vanno interpretate unicamente come prodotto di un deficit di sviluppo e ricchezza, laddove le nuove guerre possono essere lette come progetti politici e sociali per resistere alla globalizzazione e affermare un nuovo comunitarismo. Le ong hanno avuto una grande responsabilità in quanto agenti del neoliberismo e delle privatizzazioni, anche noi abbiamo contribuito a distruggere quelle società. I poveri (Tony Vaux) e le donne lavoratrici dei Paesi nei quali ci troviamo ad operare hanno comportamenti guidati da analisi più scientifiche delle nostre. Senza le ong (Gianni Rufini, Fields) staremmo ancora a parlare di apartheid, di mine antiuomo o di Tribunale Penale Internazionale. Oggi però le ong hanno perso la parola, sono affogate nei progettifici. Dobbiamo tornare a chiederci perché siamo nati e al tempo stesso produrre metodologie nuove e creative.

Comunicazione, ricerca

Le ong devono dotarsi di strumenti di analisi adeguati per poter agire nei contesti delle nuove guerre, cui partecipano non solo gli eserciti ma anche la gente, e nelle quali la povertà gioca un ruolo fondamentale (Tony Vaux). L'unica comunicazione che sembra funzionare (Andrea Segre, Ics, Unità di Comunicazione Creativa) è quella che alimenta lo spettacolo, la pornografia del dolore o la compassione sui bambini, mente l'elemento critico deve essere la distanza: dobbiamo ridurre la distanza tra coloro i cui racconti raccogliamo e gli spettatori, coinvolgendo i primi nel racconto come autori e dando la parola ("attiva") ai secondi, rompendo un meccanismo di spot che prevede come unico strumento di relazione il dono. In un mercato della comunicazione occupato da poche grandi ong, noi siamo incapaci di agire (Marco Bertotto, Amnesty Italia, Ics), così come siamo incapaci di fare politica e lobby seriamente, uscendo dalla mera affermazione di slogans.

E' Giulio Marcon, alla fine, a sottolineare come il disordine del dibattito rifletta la situazione del mondo della cooperazione oggi: "Siamo parte del movimento contro la globalizzazione neoliberista e in certi momenti ne siamo (o rischiamo di esserne) strumenti. Scopo della giornata era anche quello di far emergere questo problema. Tenendo a mente tuttavia che in Italia esistono oggi circa 1450 gruppi e associazioni che fanno solidarietà internazionale e che non hanno niente a che vedere né con il business né con il parastato. Questi sono il nostro riferimento." Proprio una rappresentante di questi gruppi (Laura Cocci, Lodi per Mostar) aveva preso la parola nella parte finale di una discussione quasi completamente maschile: "Siamo nati durante il conflitto in ex Yugoslavia per creare ponti di pace e solidarietà tra comunità locali: mi sento estranea a questo dibattito, noi non ci sentiamo in crisi e continuiamo con le nostre attività come in passato."

Il circo umanitario è tale anche perché sia gli spettatori che, in qualche modo, gli attori, tendono a costruire un immaginario unico e indistinto di persone e gruppi occupati a "fare del bene". Il convegno di Lucca ha contribuito su questo a fare chiarezza, presentando uno scenario ancora molto diversificato tra ong "embedded", chi si occupa di emergenza e chi di sviluppo o di relazioni tra comunità. Sul campo, tuttavia, le recenti crisi internazionali tendono sempre più ad affermare un modello unico, per ciò stesso ambiguo, di aiuto umanitario, basato sulla emergenza, lontano dalle istanze della cooperazione allo sviluppo modello anni '60 e '70 - peraltro già in crisi - che recava nel proprio dna un chiaro progetto di trasformazione del mondo, o dalle nuove forme di cooperazione decentrata affermatesi nei Balcani. Con questo modello unico dovrà confrontarsi in futuro in maniera sempre più stringente il mondo della cooperazione. Partendo dalla ricerca e affermazione di un linguaggio e di forme di comunicazione nuove. Lontane dalla pornografia del dolore. E anche da categorie ormai inutilizzabili. Come quella dell'umanitario.

Vai ai materiali del convegno Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive


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