Non esistono più terre incognite e quindi il viaggiatore deve cercare le sue rivelazioni nella quotidianità dei giorni e delle stagioni. Ed è allora, che a Capo d'Otranto, appare Pippi Calzelunghe. Continua la nostra esplorazione dell'Adriatico, mare che accomuna
Il viaggio non è solo un'esperienza geografica e storica. Soprattutto oggi che l'immagine dei luoghi è stereotipata, l'osservazione non è più sufficiente. Il viaggio deve farsi sinestetico, la geosofia deve ampliare la geografia, la topofilia deve sostenere la topografia. Insomma, il viaggio richiede sensorialità e il luogo richiede amore. Una sensorialità anche meteorologica e astronomica, un amore anche faticoso e paziente. Oggi che non esistono più settecentesche “terre incognite”, non ci resta che placare la nostra bramosia nomade andando alla ricerca di “terre cognite” nelle epifanie dei giorni e delle stagioni, nelle infinite circostanze meteoriche e astrali.
Così una camminata sul limes orientale italiano, diventa nei giorni d'inverno un pellegrinaggio al tempio adriatico del Sol invictus: Capo d'Otranto. Il tempo in cui la luce risorge dal buio, il diurno riconquista il notturno; il Sole invitto, indomito, incrollabile, ciclicamente riprende la scena celeste. Il Sole entra nel giorno italico dall'Adriatico e illumina, prima di ogni altra, quella remota terra orientale che è Capo d'Otranto. Nel necessario rigore geografico la riva di Capo d'Otranto sta a 18° e 31' a Est del meridiano di Greenwich. In questi giorni di gennaio il sole sorge qualche minuto dopo le sette, un'ora prima che al Faro di Capo dell'Arma, il più occidentale della Penisola, nel Ponente ligure. Partenza quindi da Otranto, cuore urbano dell'omonima Terra, nell'ora blu che precede l'alba. Un preludio di luce comunque sufficiente al viandante, anche quando lascia la via illuminata per imboccare il sentiero oscuro. Un'ora abbondante di cammino, di baia in baia, di torre in torre, di grotta in grotta.
Un pellegrinaggio laico, dal fanale rosso in testa al molo del porto d'Otranto al dismesso Faro della Palascia, andando incontro alla luce e al suono, quelli arcaici dei luoghi. Sulla banchina incontro solo qualche pescatore, intento a preparare le reti, mentre i motori delle lance borbottano e le luci di via sono già accese. I moli rimangono luoghi di antiche ritualità pescherecce, anche oggi che le vele sono state ammainate, sostituite dalle eliche, nuovi talismani marinareschi ideati, sperimentati, promossi da un figlio dell'Adriatico semisconosciuto ai più: Josef Ressel.
Di fronte a me il piccolo faro di Punta Craulo, che segna il confine settentrionale dell'insenatura otrantina. Il lampeggio e il murmure evocano storie marinaresche di gioia e dolore, accadimenti felici e tragici, che hanno segnato la storia di questo avamposto difeso dai Santi Martiri. Ma devo girare le spalle alla città e alla sua storia, mettermi in cammino verso l'oriente estremo, che è anche limen adriatico, cioè la soglia di questa profonda ingolfatura mediterranea, il luogo dell'incontro tra l'oceanico Ionio e il vicinale Adriatico. La toponomastica di torri e grotte basta da sola ad alimentare le fantasie del viandante: Torre della Serpe, Grotta Palombara, Grotte dell'Orte, Grotta Lu Lampiune, Grotta del Vento, Grotta del Rospo e infine la perduta Torre Palascia che ha originato il toponimo della punta e secondo alcuni nasconde nel suo nome il πελαγικός, il pelagico, l'alto mare dei greci. Di certo, in quest'argentata alba d'inverno, con la superficie del mare martellata da una gelida brezza di Maestrale, la suggestione del pelago è fortissima.
Della torre non rimane traccia perché “A cominciare dal 15 luglio 1867 venne acceso un nuovo faro sulla punta più foranea del Capo d'Otranto, detta Punta Palascia”, si legge al n.54 degli Avvisi ai Naviganti del 1867. Che con marinaresca meticolosità concludono: “Il faro è di scoperta e serve di guida ai bastimenti che imboccano o sboccano nell'Adriatico”. Oggi aria tersa, luce adamitica. All'orizzonte si stagliano imponenti i Monti Acrocerauni, cerniera litica tra popoli e culture, albanesi e greche. “Corsa quest'altra porzione di paese s'incontrano le montagne nubilose della Chimera, dette Acrocerauni, perché richiamo di fulmini”, leggo in un libro ottocentesco dedicato alla misconosciuta nazione albanese. Questa mattina le cime innevate sono color di pesca. Colori di meteore invernali e frutti estivi, immagini di vette montuose e onde marine; questo non è il confine tra due mari, ma l'illimite mediterraneo.
Capo Linguetta, l'estremo orientale del Canale d'Otranto, dista meno di cinquanta miglia, distanza percorribile anche a vela nelle ore di luce di un giorno d'estate. Qui si è sempre navigato a vista da una costa all'altra, da tempi ancor più antichi cantati da Virgilio nell'Eneide. Una vicinanza, un'intimità che esemplifica la riuscita definizione data all'Adriatico da Predrag Matvejević. Una vicinanza però ancora oggi più geografica che culturale, politica e sociale. Sono lontane le due rive e all'alba di questi “Anni Venti”, rimangono attualissime le domande poste negli “Anni Dieci” da Alessandro Leogrande che tanto ha fatto per raccontare agli italiani l'Adriatico e le sue genti. Sto proprio rileggendo qualche pagina di “Adriatico”, seduto a terra con le spalle appoggiate al faro dismesso quando improvvisamente mi raggiungono due bambini; fratello e sorella scoprirò poi. “Cosa fai?” mi chiede senza salutarmi il più grande, capelli biondi a spazzola, lentiggini e … “Pulisciti il moccio!”, lo sgrida la sorella, piccola Pippi Calzelunghe. “Leggo un libretto sull'Adriatico”, rispondo io. “Ah! ...ma sei da solo? E perché non lo guardi?”. “Ma no!”, interviene la sorellina, “Chiudi il libro e gli occhi. Senti i rumori e gli odori”. La ascolto senza rispondere. Per qualche minuto sento solo fruscii di vento, profumi di salmastro. Riapro gli occhi e i due folletti sono spariti. All'orizzonte sfila un mercantile, con la prua rivolta a sud; dal sentiero che scende dalla strada, una coppia viene verso il faro tenendosi per mano. Il Sol invictus intiepidisce già l'aria.
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