Il faro come simbolo di una terra promessa che si lascia a poppa o si cerca a prua. Come quelli che guardavano gli emigranti italiani, come quelli che cercano gli immigrati italiani, accomunati da un diritto, da una speranza, da una luce che lampeggiando orienta e rincuora nel buio della notte, che sempre spaventa quando si è in mare
“A chi come me è nato sull’Adriatico, non la darete a intendere che i fari più belli d’Europa stanno in Bretagna o Cornovaglia”, scrive Paolo Rumiz ne “Il Ciclope”, il diario di un viaggio immobile, quello di un naufrago volontario su un’isola faro, di incerta posizione, ma di certa adriaticità. Così come certa, senza ombra di dubbio estetico, è l’antica storia e la ricca presenza di fari lungo le coste adriatiche.
Fari rappresentati: a Rimini in un mosaico in bianco e nero, risalente al II secolo d.C., e a Ravenna in un mosaico a colori, del VI secolo d.C.. Fari costruiti: dalla prima metà dell’Ottocento dall’Impero Austro-Ungarico, che realizzò una vera e propria rotta luminosa, a partire da quello di Punta Salvore in Istria, eretto nel 1818 e ancora attivo.
Ai fari dell’Adriatico sono dedicati due capitoli di “Andar per fari” (2023, pp. 172; 13 €), scritto da Luca Bergamin, da poco pubblicato da Il Mulino nella collana “Ritrovare l’Italia”. Una collana di itinerari d’autore tra storia e cultura, per viaggiatori sempre più attenti ai luoghi, alle tracce del passato, visibili e invisibili, alle atmosfere del presente, materiali o immateriali. In questo caso una materialità e una visibilità, diurna e notturna, che per paradosso sono testimoni di un tempo andato. Quello in cui la navigazione era stimata al largo ed era visuale lungocosta. In cui fondamentali erano i punti cospicui di giorno e i lampeggi di notte. Attenzione però! Se è vero che ormai la navigazione è felicemente supportata dai sistemi satellitari, è altrettanto vero che ogni marinaio deve saper orientarsi anche con le stelle e i fari, che dovrebbero rimanere accesi e ben visibili, malgrado l’inquinamento luminoso che deturpa le coste.
I fari dunque. Mitico quello costruito all’ingresso del porto di Rodi, in forma di statua monumentale del dio Elios. Leggendario quello dell’isola di Pharos ad Alessandria d’Egitto, da cui è derivato il nome comune. Monumentale quello di Genova, la Lanterna ricostruita nelle forme attuali nel 1543. Una storia plurimillenaria, non solo architettonica e navale, ma anche energetica, perché legata a quella delle tecniche illuminanti. Legna resinosa all’inizio, poi oli vegetali, oli animali durante quella terribile e incredibile epopea che è stata la caccia alla balena, successivamente paraffina, acetilene, elettricità. Rivoluzionaria, in termini di efficienza, è stata la lente di Fresnel, ancora utilizzata, che permette di rendere la luce visibile a decine di miglia da terra.
Portata la chiamano i marinai, 18 miglia nautiche per quello di Torre Canne in Puglia, costruito nel 1929 e da cui s’avvia il racconto adriatico di Bergamin, che si conclude a Trieste, al Faro della Vittoria, inaugurato nel 1927 e visibile fino a 35 miglia da terra. Ma la storia dei fari italiani nasce molto prima, per regio decreto nel 1868. I Sabaudi non partivano da zero, ma dai 50 fari preunitari, tra cui limitandosi al nord Adriatico: il faro di Piave Vecchia del 1853, il settecentesco faro di Rimini, l’ottocentesco faro del Cardeto di Ancona. Fari italiani che raddoppiano già nel 1873.
Ma la storia dei fari è legata anche alla loro potenza evocativa, perché sono “sentinelle del mare nell’immaginario”. Così Bergamin scrive dei significati e delle rappresentazioni dei fari in letteratura, pittura, musica e cinema. Si parte da Omero che nel canto XIX dell’Iliade accosta il lampeggiare dello scudo di Achille ai fuochi “che si vedono accesi sulle colline per facilitare la rotta dei naviganti” e si arriva al film hollywoodiano “Il faro in capo al mondo” con Kirk Douglas, tratto dall’omonimo romanzo di Jules Verne.
Il faro come simbolo di una terra promessa, prendendo a prestito il titolo di un poema inconcluso di Giuseppe Ungaretti (da leggere o rileggere in questa temperie migratoria), che si lascia a poppa o si cerca a prua. Come quelli che guardavano gli emigranti italiani, come quelli che cercano gli immigrati italiani, accomunati da un diritto, da una speranza, da una luce che lampeggiando orienta e rincuora nel buio della notte, che sempre spaventa quando si è in mare.
Libro
Alla storia dei fari orientali dell’Adriatico è dedicato un libro edito dall’Unione degli Italiani: “La via luminosa sull'Adriatico orientale. I fari tra Trieste e la Costa Istriana” di Massimiliano Blocher e Paola Cochelli (2020; pp 180). Un storia dei fari, a partire da quella del Faro della Vittoria di Trieste, è raccontata in una puntata di Wikiradio Rai Radio3
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