Un percorso di formazione e viaggio-studio tra luoghi della memoria, incontri e racconti
L’autostrada tra Trieste e Zagabria è lunga e anonima e il confine tra Italia e Slovenia è ormai impercettibile. Il pullman lo oltrepassa mentre tra i trenta viaggiatori fervono le chiacchiere: quasi tutti hanno in mano carte geografiche o il cellulare con google maps che indica, con la sua serpentina colorata, il percorso che ci attende nei prossimi giorni. 1667 chilometri e 8 attraversamenti di confini, se ci limitiamo a quelli ufficiali, segnalati lungo la strada. Un susseguirsi di controlli di documenti, bandiere, cartelli scritti in lingue e con caratteri differenti.
Per chi vive in Friuli Venezia Giulia il confine è un luogo familiare, che fa ormai parte dell’identità di un territorio e di genti la cui storia è stata profondamente segnata dallo spostamento ricorrente di quella linea mobile.
Eppure, nonostante questa familiarità, la prospettiva di attraversare i confini che dividono Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina e Serbia fa nascere sensazioni particolari e tante domande. Più della metà dei partecipanti al viaggio è composta da insegnati: rispondere alle domande degli studenti è il loro lavoro quotidiano e in molti hanno deciso di partecipare al progetto “La Nuova Europa. I Balcani tra storia e cultura” e vivere quest’esperienza di viaggio-studio anche poter proporre alle classi un percorso formativo sulla storia dei Paesi dell’ex Jugoslavia. E per costruire un percorso didattico è innanzitutto necessario capire quali sono le domande da porsi, quali i termini giusti da utilizzare, quali le percezioni e i punti di vista di chi in quei paesi vive e non solo li osserva a distanza, per quanto ravvicinata.
Molte delle domande che si sentono girare per il pullman, mentre siamo sulla strada che ci porterà a Jasenovac, nascono da tre incontri di formazione organizzati a Udine dall’Associazione Quarantasettezeroquattro con la consulenza scientifica di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa. Tre incontri durante i quali Marco Abram e Marzia Bona, ricercatori universitari e collaboratori di OBC, hanno provato a mettere sul tavolo della discussione alcuni dei temi centrali che pongono i Balcani al centro della storia europea.
A partire dall’Ottocento, quest’area, viene spesso presentata come un “groviglio” di dinamiche sociali, politiche e culturali. Dallo sviluppo dei movimenti nazionali fino alla scoppio della Prima Guerra Mondiale, dalla costituzione della prima Jugoslavia nel 1918 al suo controverso percorso come stato nazionale. Il tema dell’identità – nazionale, religiosa, linguistica, culturale – si pone immediatamente come il focus principale, per diventare ancora più rilevante dopo il secondo conflitto mondiale e acquisire tratti drammatici con lo scoppio delle guerre degli anni Novanta.
Se da un lato appare naturale il desiderio di studiare e comprendere i tanti conflitti che hanno segnato queste terre, dall’altro è essenziale comprenderne la ricchezza dei tratti culturali e sociali, oltre a soffermarsi sulle diverse prospettive di integrazione europea che caratterizzano i paesi nati dalla disgregazione della Federazione voluta da Tito. In un contesto di instabilità politica ed economica e questioni sociali aperte, Bruxelles rappresenta del resto un punto di riferimento fondamentale.
Molte e variegate, dunque, le domande sorte in aula, dall’osservazione di carte storiche, immagini e filmati che i partecipanti si sono idealmente caricati nello zaino prima di salire sul pullman.
Già la prima tappa del viaggio – proposto da Quarantasettezeroquattro con la collaborazione organizzativa di Viaggiare i Balcani – si presenta come un condensato di questioni relative al rapporto tra storia e memoria. Il campo di concentramento Ustaša di Jasenovac, posto oggi sul confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina, è uno dei più importanti luoghi della memoria a livello europeo ed evidenzia come i processi di rielaborazione del passato, sui due lati del confine, siano ancora estremamente delicati e di grande attualità. Diversi gli approcci, diversi gli stili dei monumenti, diversi i numeri delle vittime. Resta il fatto che in questa piccola località sulle sponde della Sava furono imprigionati e persero la vita serbi, ebrei, zingari, croati e musulmani oppositori del regime di Ante Pavelić. Uno dei punti centrali del sistema concentrazionario dell’Europa occupata dal nazi-fascismo.
Se da un lato il luogo in sé riporta ormai solo labili segni del complesso sistema di strutture che componeva il campo, le dinamiche di vita e di morte a Jasenovac vengono ben delineate dalle video-testimonianze, dalle fotografie e dalla lunga – seppur ancora parziale – lista di nomi che il Centro studi-memoriale croato ormai da anni sta ricostruendo con cura.
Lasciato alle spalle il fiore-monumento disegnato da Bogdan Bogdanović, diventato ormai un simbolo riconosciuto, il pullman si rimette in marcia in direzione di Prijedor. La visita a questa municipalità della Republika Srpska, segnata dalla guerra degli anni Novanta, è oggi un luogo ideale in cui provare a capire le complesse dinamiche del dopoguerra, la difficoltà di ricostruire spazi e legami sociali dopo una guerra civile, le tensioni ancora latenti a vent’anni dagli accordi di Dayton. E non è un caso se, per il dialogo-intervista che abbiamo in programma con uno dei sopravvissuti di Srebrenica, dobbiamo spostarci in un anonimo albergo di periferia, dove – ci dicono – si può “parlare tranquilli”. Il racconto di Mirsad è calmo e pacato, ma i fatti raccontati, seppur conosciuti, non possono lasciare indifferenti. Ci narra dell’assedio, del tentativo di rifugiarsi nella fabbrica che ospitava il comando ONU olandese, della fuga disperata verso Tuzla, attraverso il bosco. Luoghi e storie che ritroveremo, tre giorni dopo, quando faremo tappa proprio a Srebrenica. Sarà qui, di fonte alla distesa di lapidi bianche del memoriale e agli enormi spazi vuoti che ospitavano i militari dell’ONU a Potočari che le parole di Mirsad ritorneranno alla mente e assumeranno concretezza.
Anche per chi è abituato a fare interviste, ad ascoltare le storie di testimoni che hanno vissuto le tragedie del Novecento, il racconto del cinquantenne musulmano di Bosnia provoca un forte disagio. Quei fatti appaiono ancora troppo vicini per tante delle persone che ascoltano, e la questione delle responsabilità non può certo essere elusa. Prijedor e i suoi abitanti portano su di sé i segni della guerra, ma evidenziano anche i concreti tentativi di “andare oltre”, di iniziare un nuovo percorso. Lo notiamo dalla calda accoglienza che ci viene riservata da parte del centro giovanile della città che organizza per noi una cena comunitaria in cui sapori, chiacchiere e balli tradizionali ricostruiscono un’atmosfera genuina, che ci ricorda come i Balcani non debbano essere letti solo attraverso la lente della guerra. Lo noteremo ancor di più la sera, quando saremo ospiti delle famiglie di Prijedor che aderiscono al circuito di accoglienza diffusa e turismo responsabile.
Le visite alle due “capitali”, Sarajevo e Belgrado, non possono che riconfermarlo: se i paesi dell’ex Jugoslavia sono conosciuti e riscuotono interesse soprattutto per i conflitti che li hanno segnati, è solo visitandoli che ci si rende conto di quante diverse storie siano in grado di raccontare. Nella capitale bosniaca, a porsi in evidenza è il dialogo tra le identità: nazionali, religiose, culturali. I luoghi di culto musulmani, ortodossi, cattolici ed ebraici; l’angolo in cui brucia la fiamma perenne in ricordo della resistenza; ma anche i luoghi della vita quotidiana, dai caffè turchi della Baščaršija al locali alla moda sulla Titova. La città narra storie del passato ma accende un riflettore su temi di grande attualità: dalle profuganze conseguenti ad ogni conflitto, al tema della presenza musulmana in Europa. Temi che vengono richiamati e ampliati, seppur da un punto d’osservazione molto differente, durante la visita a Belgrado. Una città enorme e complessa, vivace e contraddittoria. Se il cuore medievale affascina i viaggiatori che osservano la confluenza fra il Danubio e la Sava dall’alto del Kalemegdan, e i palazzi del potere riflettono le complesse dinamiche di una capitale nazionale e federale, ad offrire grandi stimoli di riflessione sono forse i luoghi meno conosciuti: i resti della biblioteca nazionale, il museo di storia/memoriale di Tito, le mostre sulla propaganda lungo il viale dello shopping, i nomi delle vie che mutano a seconda del periodo storico.
Durante il viaggio, ad ogni tappa, i racconti e le spiegazioni dei due storici Marco Abram e Alfredo Sasso si sono mescolate con le narrazioni dei testimoni, dei giornalisti, dei rappresentanti delle associazioni locali. Una molteplicità di voci e di punti di vista, spesso difficili da coniugare e ricondurre ad una sintesi. Ma è forse proprio questa la ricchezza dei Balcani: ti costringono a relativizzare, a metterti nei “panni dell’altro”. Per gli insegnanti c’è sicuramente molto materiale su cui riflettere e su cui far riflettere i propri studenti adesso che l’anno scolastico è ricominciato.
* Alessandro Cattunar fa parte dell'Associazione Quarantasettezeroquattro (Gorizia). Il viaggio qui descritto è stato realizzato nell'estate 2016
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