La recente liberazione dell’ex premier kosovaro Ramush Haradinaj, arrestato a gennaio in Francia, segna l’ennesimo punto di crisi tra Serbia e Kosovo
Una nota diplomatica di protesta da parte di Belgrado ed il richiamo in patria dell’ambasciatore serbo di stanza a Parigi. È finita così la vicenda di Ramush Haradinaj, l’ex Primo ministro kosovaro arrestato a gennaio in Francia e liberato giovedì scorso, malgrado la Serbia ne chiedesse l’estradizione. Accusato da Belgrado di crimini di guerra, ma assolto per due volte dal tribunale dell’Aia, Haradinaj - che fu uno dei comandanti dell’esercito di liberazione del Kosovo (Uçk) - è già potuto tornare a Pristina, per il sollievo delle autorità locali e l’ira di quelle serbe, che denunciano “una decisione politica che non ha nulla a che vedere con la giustizia”, come ha affermato il ministro degli Esteri serbo Ivica Dačić. Con queste reazioni contrapposte, si chiude l’ultima crisi nelle relazioni serbo-kosovare, sottoposte da diversi mesi ad una tensione costante ed ormai afflitte da un bassissimo livello di fiducia reciproca.
Soltanto da inizio anno, la lista degli eventi che hanno degradato i rapporti bilaterali è lunga. Si conta la vicenda del muro costruito e poi demolito nella parte settentrionale di Mitrovica (la città kosovara divisa in due tra le comunità serba, a nord, e albanese, a sud); il caso del treno decorato con la scritta “il Kosovo è Serbia” ed inviato da Belgrado a Mitrovica (ma mai giunto a destinazione); la proposta del presidente kosovaro Hashim Thaçi di istituire “un esercito del Kosovo” anche senza il consenso della minoranza serba; infine, il lungo fermo di Haradinaj, che aveva spinto il parlamento di Pristina a sospendere il dialogo con Belgrado fino all’avvenuta liberazione del veterano dell’Uçk. “Come si può dialogare con una pistola puntata alla tempia?”, commentava alla vigilia della scarcerazione di Haradinaj il giovane politico kosovaro Petrit Selimi, ex ministro degli Esteri ed oggi coordinatore nazionale del “Millennium Challenge” (un programma di aiuti internazionali finanziato dal governo statunitense).
Punti di vista differenti
Secondo Selimi, Serbia e Kosovo vivono in effetti un periodo di “stress”, comune a tutti i Balcani occidentali ed iniziato già qualche anno fa. Il “calo dell’interesse per l’area da parte degli Stati Uniti”, la “stanchezza e la confusione europea in materia” e ancora “la crisi e la stagnazione economica” hanno provocato della “frustrazione” e spinto “alcuni politici a ricorrere alle armi del populismo e del nazionalismo”, spiega il politico kosovaro, che constata una generale “degradazione della democrazia nei Balcani nell’ultimo anno o due”. Tuttavia, insiste Selimi, non bisogna dimenticare che dei progressi sono comunque stati realizzati tra Pristina e Belgrado, grazie ai negoziati mediati dall’Unione europea. Dopo l’accordo firmato tra le due capitali nel 2013, “lo stato di diritto è tornato nel nord del Kosovo”, “l’ingresso in Serbia è permesso alle auto con targa kosovara”, “è possibile l’importazione e l’esportazione tra i due paesi” e “il mercato nero è sempre meno importante”. Nel 2015, inoltre, un nuovo compromesso è stato raggiunto su altre materie, come le telecomunicazioni.
Joanna Hanson, che nel 2014 ha fondato in Kosovo l’ong “New perspektiva” (proprio con l’intento di “spiegare l’accordo di Bruxelles”), è di questo stesso avviso. “L’inclusione dei poliziotti serbi del nord del Kosovo all’interno della polizia kosovara”, “la riunificazione del sistema giudiziario”, o ancora “il riconoscimento dei diplomi” sono dei passi importanti che permettono di relativizzare l’attuale crisi nelle relazioni serbo-kosovare. Ma resta il fatto che - vuoi per il contesto generale menzionato da Selimi, vuoi perché “i governi locali non si assumono la responsabilità dei valori europei e dell’integrazione nell’Ue”, come sostiene Hanson - “le relazioni tra Serbia e Kosovo sono oggi al livello più basso dal 2013”. A Mitrovica, dove l’Ue sperava di riaprire a gennaio il simbolico ponte, questo quadro ambivalente è confermato: la polizia kosovara e l’ong serba Aktiv, pur collaborando assieme su alcuni progetti, danno una visione contrapposta della realtà. “Non ci sono più incidenti etnici da due anni”, sostengono le forze dell’ordine a sud del fiume Ibar. “Ne abbiamo contati 67 nel solo 2016”, ribattono a nord.
Preoccupazioni
A quasi vent’anni dalla fine del conflitto (1998–1999) e alla vigilia del decimo compleanno della dichiarazione d’indipendenza del Kosovo (2008), il processo di “normalizzazione della relazioni” avanza dunque lentamente ed in un pantano di retorica e di interessi divergenti. “Si fa un passo avanti ed uno indietro”, riassume Agron Bajrami, da 13 anni caporedattore di Koha Ditore, il principale quotidiano kosovaro. “Il Kosovo guarda ancora alla Serbia come a una minaccia e forse la teme più ora che nel 2009. La Serbia pensa a come riprendersi una parte del Kosovo”, prosegue il giornalista, secondo cui “i due paesi si sono sempre guardati come nemici e lo fanno tuttora”. Rispetto alle aspettative dei cittadini, i risultati ottenuti paiono dunque poca cosa e, aspetto forse ancora peggiore, sembrano “reversibili”. “Vent’anni fa il sistema democratico non era messo in dubbio fino a questo punto”, conclude Bajrami, preoccupato per l’effetto che “la stagnazione politica” dei Balcani potrebbe produrre nel nuovo contesto internazionale.
A Belgrado, Dejan Anastasijević ha lo stesso sguardo inquieto. Seduto in un caffè all’indomani dell’assalto al parlamento di Skopje, lo storico giornalista del settimanale Vreme non nasconde il suo pessimismo. “Tra un mese, quando il nuovo presidente francese avrà assunto le sue funzioni, la Serbia rimanderà il suo ambasciatore a Parigi come se niente fosse, ma questo non vorrà dire che l’allarme è rientrato”, avverte Anastasijević. “Il Kosovo ha firmato l’accordo di stabilizzazione e associazione con l’Ue e ora non ha più alcuno stimolo per continuare il dialogo con Belgrado: senza il riconoscimento completo da parte dei paesi membri, non può infatti ottenere lo status di paese candidato. La Serbia, al contrario, si aspetta i riconoscimenti per quanto già concesso”, prosegue Anastasijević. Così, davanti al mancato riconoscimento del Kosovo da parte di cinque paesi Ue (Spagna in primis) e a fronte del blocco dell’allargamento voluto dalla Commissione europea, “i leader dei Balcani hanno deciso di attirare l’attenzione creando dei problemi”.
“La maggior parte della responsabilità dell’attuale crisi nella regione ricade certamente sugli attori locali, ma la comunità internazionale non si rende conto di quanto la situazione sia seria - conclude il giornalista - Quello che è successo in Macedonia è come un piccolo incendio in cucina. Ma i Balcani sono stanze collegate e ci vuole un attimo perché il tetto prenda fuoco”.
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