Distrutto durante la guerra, l'antico cuore commerciale della città di Gjakova/Đakovica, Kosovo occidentale, è stato ricostruito nel 2001 grazie a finanziamenti internazionali. Ma soffocato dal traffico stenta a ridiventare il "mercato a misura d'uomo" tipico del periodo ottomano
Per arrivare nel centro d'impronta social-realista di Gjakova/Đakovica, cittadina del Kosovo occidentale, l'antico mercato ottomano è una via obbligata. Una lunga via ben tenuta e con la pavimentazione tradizionale, ma svuotata di gente e congestionata dal traffico. L'impressione è subito che le autorità cittadine abbiano voluto mantenere in vita a tutti i costi l'antica čaršija *, ma senza saper bene come definirla: mercato, attrazione turistica o semplicemente un quartiere della città di cui preservare l'architettura originale ma lasciato al proprio destino dettato dal suo sviluppo?
Sono pochi i negozi dalle serrande ancora aperte. Qualche sartoria, barbieri e parrucchiere, alcune falegnamerie che realizzano le tradizionali culle per bambini e bare da morto e, infine, un imbalsamatore di animali selvatici, chimico in pensione, che si muove appoggiandosi su di un bastone, vittima del traffico sempre crescente della çarshija.
Il via vai di vetture verso il centro sta prendendo infatti il sopravvento. Siamo lontani dalla čaršija a misura d'uomo, cuore pedonale della città. Il traffico impedisce persino l'esposizione delle merci sulle serrande che come tradizione dovrebbero, di giorno, diventare vere e proprie bancarelle appoggiate alle vetrine dei negozi.
Un han e una moschea
Ma tra i bassi edifici che caratterizzano questa parte della città – che rispecchiando il principio architettonico secondo cui l'uomo doveva sentirsi il padrone della çarshija– ne risaltano alcuni, bellissimi, a due piani: struttura tipicamente ottomana, facciata bianca, allargamento della superficie al piano superiore e legno scolpito dalla funzione portante ma anche decorativa.
Sono antichi caravanserragli, i cosiddetti han ottomani. I due più antichi appartengono alla famiglia Harraqija, vengono citati in numerose fonti storiche e hanno la stessa età della città. La storia di Gjakova/Đakovica inizia infatti nel 1600, come per molti altri centri abitati nei Balcani, con una moschea, degli han per i fedeli e il mercato. Gli han, ricostruiti fedelmente al passato, rappresentano uno squarcio su quello che era il mondo ottomano da queste parti. Dopo il tramonto, mentre tutta la čaršija viene avvolta dal buio, gli han e le loro cucine rustiche rimangono l'unico luogo pulsante di questa parte della città.
Rinata dalle ceneri
All'entrata della çarshija una lastra in marmo ricorda come quest'ultima sia stata ricostruita, nel 2001, grazie ad un'iniziativa di USAID, agenzia del governo degli Stati Uniti. “E' stata incendiata il 24 marzo 1999, non ne erano rimaste che poche mura diroccate, strutture annerite e ceneri” racconta Osman Gojani, un architetto che ha vissuto tutto il conflitto del Kosovo in città, senza rifugiarsi in Macedonia o in Albania.
La vita di Osman è segnata dalle čaršije: quella splendida di Sarajevo, dove è nato, e quella delle sue origini famigliari a Gjakova/Đakovica, ricostruita ma da far rivivere. Conserva tutte le mappe e i progetti che hanno segnato l'evoluzione della çarshija, ed è tra gli artefici dell'ultima ricostruzione finanziata da USAID.
“Durante la guerra le cose più care che avevo erano quei documenti storici che testimoniavano l'evoluzione nel tempo della čaršija e i miei risparmi. Li ho messi in una busta di nylon e li ho interrati nel mio cortile” racconta. A conflitto ultimato si è rimboccato le maniche per riportare l'identità alla sua çarshija. Prima istituendo un'associazione insieme ai proprietari degli han, la famiglia Harraqija e poi stilando i progetti e effettuando i controlli sulla ricostruzione. La čaršija andava ricostruita, non solo per motivi identitari dei pochi cittadini che la percepiscono ancora come il cuore della propria città e nemmeno per un turismo difficile da far decollare in un Paese come il Kosovo, ma anche perché prima della guerra risultava che almeno il 30% degli abitanti della città si guadagnavano da vivere proprio grazie all'attività in essa svolta.
La çarshija è quindi rinata dalle proprie ceneri. Osman Gojani è ora membro di una commissione comunale che controlla e concede i permessi a chi vuole ricostruire o intraprendere attività nella čaršija. Lo scopo è quello di rimanere il più fedeli possibile al suo carattere tradizionale. “Però a volte ci tocca chiudere un occhio. C'è una vedova che ricostruisce il suo negozio, è povera e ha necessità di mettersi a lavorare il prima possibile. Non possiamo farle ricostruire tutto da capo perché ha sbagliato a ricostruire le scale, o non ha rispettato il progetto all'interno dell'edificio. Si cerca di rimanere il più fedeli possibile perlomeno alle facciate e ai materiali tradizionali con cui vengono ricostruite.
Nuovi burocrati, vecchi artigiani
La ricostruzione non basta però a far rivivere la çarshija. E nemmeno basta l'associazione per la sua rivitalizzazione, che alcuni artigiani criticano di passività e mancanza di strategie di dialogo con le autorità locali. “Non sono in contatto con loro, non mi hanno aiutato in nessun modo”, afferma un anziano artigiano, uno degli unici che realizza ancora freni decorati per i cavalli.
Osman Gojani, pur ammettendo la passività dell'associazione di cui fa parte, spiega il tutto con l'inadeguatezza di chi occupa cariche importanti in città: “E' gente secondo cui i criteri di come decidere non riguardano la città, e le strategie di sviluppo ma l'accontentare amici, ex compagni d'armi o parenti vicini e lontani del proprio clan”.
“Eccone l'esempio – racconta Ali Haraqija, tra i fondatori dell'associazione, mentre passeggia per uno dei vicoli principali della çarshija e indica alcuni punti lungo il selciato – qui vi erano dei lampioni, si vedono ancora i pali segati. Li hanno portati via e la čaršija è rimasta al buio. Le autorità del comune hanno deciso di illuminare un villaggio qua vicino, con quei lampioni...”
Albanesissimi
Nella çarshija si parla solo albanese. Basta parlare con l'accento di Tirana per far scattare la solidarietà pan-nazionale, un'ospitalità senza eguali e la voglia di parlare di Albania, di vacanze estive a buon prezzo, bellezze naturali che “hanno solo gli albanesi”, dell'inarrestabile progresso di Tirana. Si sottolineano solo aspetti positivi, acriticamente.
Gjakova/Đakovica è molto vicina al confine con l'Albania e gli abitanti rivendicano questo fatto come all'origine della monoetnicità della loro città. “Qui i serbi non ci sono mai stati” raccontano ogni volta che chiedo dei non albanesi che dovrebbero esercitare i loro mestieri nella čaršija, come tradizione vuole. “Anche se c'erano prima della guerra, in realtà erano coloni serbi e montenegrini portati qui per assimilarci. Ma non ci sono riusciti”, racconta un falegname tra bare e culle, nel suo laboratorio. “Noi il serbo non l'abbiamo mai parlato bene, come invece accade a Peja”, chiosa.
Ma nella çarshija non c'è traccia neanche di rom, ashkali, valacchi o altri. “No, no, siamo solo albanesi – afferma un passante mentre cerca di spiegarmi la monoetnicità kosovara – noi non siamo come in Albania, dove esistono distinzioni tra tosk, geg, çam, valacchi e tante altre categorie, noi qui siamo solo albanesi”.
* Per facilitare la lettura si è scelto di usare il termine in versione 'bchs' (čaršija) nei testi riguardanti la Bosnia Erzegovina e la Serbia; in quelli sull'Albania, l'ortografia albanese (çarshija); invece per i bazar in Kosovo e Macedonia vengono usate indifferentemente entrambe le diciture.
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