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Il ruolo della famiglia nell’educazione in età prescolare e le sue conseguenze sulla società kosovara. Intervista a Daniele Novara, direttore del Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti

22/04/2010 -  Francesco Gradari Pristina

La storia dell’educazione prescolare in Kosovo si intreccia in maniera profonda con le vicende politiche della regione, ma soprattutto con la tradizione e la cultura locale. Nel 2006 il paese ha adottato una legge ad hoc sull’educazione dei bambini in età compresa tra gli 0 e i 6 anni. Le istituzioni prescolari in Kosovo, pubbliche e private, sono organizzate su tre livelli: i centri comunitari di assistenza familiare (per bambini in età 0-2 anni), le scuole d’infanzia (3-5 anni) e le classi prescolari (5-6 anni).

Le statistiche relative all’anno in corso, diffuse dal ministero dell’Educazione del Kosovo (MEST), riportano nel settore prescolare un totale di 24.765 bambini iscritti. Di questi 19.589 frequentano le classi prescolari e solamente 5.176 i primi due livelli. Cifre significative se rapportate a un popolazione (stimata) di oltre due milioni di abitanti, in cui secondo UNDP (United Nations Development Programme) i giovani di età inferiore ai 25 anni rappresentano il 52% del totale.

Il ministero dell’Educazione riconosce il prescolare come ambito d’intervento prioritario, ed è in procinto di presentare un Piano Strategico relativo al periodo 2010-2015 con l’obiettivo di favorirne lo sviluppo. Ma allo stesso tempo avverte: le risorse a disposizione sono molto limitate.

A cosa è dovuto, a suo avviso, il ritardo del settore prescolare in Kosovo? Qual è il ruolo che gioca la famiglia nell’educazione dei bambini piccoli?

Ci troviamo di fronte a una società fortemente tradizionale, in cui la famiglia è il cuore di tutte le relazioni e genesi personali. Non esiste il concetto di affidare il bambino piccolo all’istituzione educativa esterna. Il bambino appartiene alla genealogia e non a se stesso. Tuttavia, specialmente dal terzo anno di vita in poi, i bambini hanno bisogno di vivere esperienze che permettano loro di sviluppare la propria intelligenza e aprirsi al mondo.

In tutto ciò, il ruolo dei nonni, e soprattutto della nonna, è centrale. La nonna è una figura educativa persino più importante della madre. Lo testimonia il fatto che il bambino alla nascita non viene affidato alla mamma, bensì alla nonna. Così facendo il rapporto naturale madre-bambino non può realizzarsi e viene mediato dai precetti familiari.

Va precisato che da noi i nonni sono per i bambini simbolo di tenerezza, mentre in Kosovo essi rappresentano la rigidità e la durezza del controllo. In questo modo la madre è però esautorata dalle sue funzioni materne. Ciò avviene perché spesso le mamme sono molto giovani.

Quali differenze emergono da un’analisi comparata della situazione kosovara con quella del resto d’Europa?

La società kosovara non si pone il problema dell’evoluzione individuale e personale del bambino. Ogni famiglia pensa unicamente all’evoluzione della propria comunità e del proprio clan. Ci troviamo di fronte a una tendenza esattamente opposta a quella in atto in Italia e nel resto del continente. Entrambi questi approcci nascondono però dei pericoli.

Da noi il rischio è quello di un narcisismo sfrenato e di un eccessivo individualismo. In Kosovo, e in altre parti dei Balcani, l’educazione tradizionale crea, da un lato, un forte senso di appartenenza al clan, dall’altro, un’estrema chiusura in se stessi e un’incapacità di fondo nel gestire le relazioni con l’esterno.

Quali sono le conseguenze di questa educazione di stampo familiare sul bambino?

Possiamo dire che le conseguenze sono di tre ordini. Innanzitutto, si registra un marcato deficit cognitivo. Il potenziale dei bambini non è pienamente utilizzato e si perde nel tempo se non viene esercitato ed allenato. In assenza di stimoli educativi esterni, questo potenziale si atrofizza.

Inoltre, si ha un danno emotivo rilevante. I bambini diventano adulti con capacità empatiche molto basse. Ciò avviene perché non hanno la possibilità di mettersi nei panni dell’altro. Tecnicamente parliamo di “congelamento emotivo” che, a mio avviso, è la base della violenza, dal momento che le persone non riescono a recepire e percepire la sofferenza altrui.

Infine, emerge una diffusa incapacità di lavorare assieme agli altri, se non in senso subordinato. Nei bambini, e poi negli adulti, è facile riscontrare grandi doti di esecuzione, ma vi è una scarsa propensione al “fare assieme”. L’insieme di questi elementi genera un’ulteriore conseguenza negativa: la mancanza di creatività.

Per la prima volta dal dopoguerra il tema del settore prescolare è stato al centro di due conferenze internazionali svoltesi il mese scorso a Pristina. Un suo giudizio sull’operato della comunità internazionale in questo settore.

La cooperazione e le agenzie internazionali avrebbero dovuto prendere coscienza e prestare maggiore attenzione a queste dinamiche prima di intervenire con i loro progetti. Non lo hanno fatto. Gli esempi possono essere tanti, ma ne cito uno su tutti. La fasciatura dei bambini nella culla non può essere definita e apprezzata come un’espressione del folklore e della cultura locale.

L’educazione è un elemento cruciale per fare uscire la società kosovara dalla spirale della violenza e della passività. E questo vale ancora di più per la primissima infanzia. Occorre sviluppare un’educazione diversa da quella attuale per i bambini, sin dalla tenera età. L’intervento nel settore prescolare, attraverso la proposta di metodi e pratiche innovative, avrebbe dovuto e deve rimanere una priorità della cooperazione internazionale nella regione. Per veder un cambiamento reale in questo campo è necessario un investimento di lungo periodo.


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