“Quando non eravamo ancora liberi, eravamo nelle condizioni di produrre un’informazione più indipendente di quanto non si faccia ora”. In quest'intervista l'amara analisi di Agron Bajrami, caporedattore del quotidiano kosovaro "Koha Ditore", sullo stato della libertà di stampa nel paese
Qual è il suo giudizio sul rapporto tra media pubblici e politica nel Kosovo di oggi?
Questo argomento deve essere necessariamente affrontato da un punto di vista regionale. Sarebbe riduttivo parlare della condizione dei media pubblici in Kosovo senza considerare il trend che il settore ha fatto registrare in tutto il sud-est europeo negli ultimi venti anni. Quello dell’interferenza della politica nei media pubblici è un problema che condividiamo con quasi tutti gli altri paesi dell’area, dalla Serbia all’Albania.
I problemi attuali nascono dal fatto che i media di stato creati all’interno dei precedenti regimi sarebbero dovuti diventare dei media pubblici sotto controllo democratico, ma questo non è avvenuto. In ogni paese i gruppi politici al potere dopo i conflitti degli anni ’90 si sono spartiti l’eredità esistente e i media pubblici sono ora ostaggio della maggioranza politica di turno. Chi ha la maggioranza in parlamento, controlla di fatto anche i media.
A suo avviso, come è possibile che ciò avvenga anche in Kosovo, paese in cui la presenza internazionale è stata ed è più forte che in ogni altro stato della regione?
Dopo il conflitto del ’99, l’OSCE ebbe il mandato di favorire la creazione di media liberi e indipendenti nel paese, operando sempre all’interno della missione UNMIK. Fu in questo quadro che fu creata, ad esempio, l’emittente pubblica RTK (Radiotelevizioni i Kosovës). Prima dell’indipendenza RTK non era di certo e per sua natura un paradigma di libera informazione, ma nel complesso funzionava abbastanza bene. Ora, invece, i vertici di RTK dipendono dal potere politico, quindi, la maggioranza parlamentare controlla anche l’emittente pubblica. I poteri e le forme di controllo della politica sui media sono ora maggiori di quanto non avvenisse prima.
Una parte della responsabilità in questa vicenda è da attribuire alla comunità internazionale, in particolare all’UE. Il controllo esterno sull’operato dei media pubblici kosovari è sfortunatamente molto diminuito negli ultimi anni. Prima dell’indipendenza c’era maggiore attenzione da parte degli osservatori internazionali. Vi era soprattutto una maggiore pressione internazionale per l’adozione di una legislazione moderna e innovativa nel settore. Quello che sta accadendo in Kosovo dopo l’indipendenza è simile a quanto accaduto in Romania e Bulgaria durante il percorso di adesione di questi paesi all’UE. La pressione europea in materia di libertà di stampa è stata elevata fino al momento dell’adesione, poi l’attenzione è calata e c’è chi ha approfittato di questa distrazione.
Questo vale anche per il settore privato?
Sfortunatamente sì. Vi sono due ordini di problemi che affliggono i media privati in Kosovo. Il primo è dettato dal fatto che alle spalle dei principali media privati vi sono gruppi economici e di interesse che sono riusciti a entrare anche nello scenario parlamentare attraverso la creazione di formazioni politiche. Di fatto questi gruppi d’interesse controllano sia l’agenda politica sia l’informazione. E’ impossibile, quindi, per i media privati essere indipendenti: ognuno sostiene il partito politico da cui è alimentato.
Il secondo problema è di carattere finanziario. Le entrate provenienti dalle vendite sono estremamente esigue. La mia testata raggiunge, ad esempio, una tiratura di appena 10mila copie e, nonostante questo, siamo il primo quotidiano del paese. Sul fronte dell’entrate pubblicitarie, una risorsa fondamentale è rappresentata dalla comunità internazionale (KFOR, EULEX, agenzie ONU, ong internazionali, investitori stranieri), mentre il mercato privato locale è ancora molto debole. Questo fa sì che per sopravvivere e far quadrare i conti, i media privati sono obbligati a guardare ai finanziamenti pubblici. Dati alla mano, lo Stato è l’attore economico principale nel settore: circa il 30% degli investimenti viene fatto dal governo o da enti pubblici. Questo fa sì che non vi sia spazio per l’ingresso di nuovi media indipendenti e che quelli esistenti siano fortemente condizionati da chi detiene il potere politico.
Quali forme assume il controllo della politica sui media?
Il controllo è di carattere economico: se sei minimamente critico nei confronti di chi è al potere, ti vedi ridurre immediatamente i finanziamenti pubblici. La pressione non avviene, generalmente e almeno sinora, sotto forma di minacce o intimidazioni fisiche, ma attraverso la leva economica: se ti metti contro il potere, ti vengono tagliati i fondi e in un mercato del genere sei obbligato a chiudere in pochi mesi. Il denaro è lo strumento utilizzato per fare tacere le voci scomode.
Il nostro gruppo ha recentemente perso un contratto pubblicitario abbastanza consistente e già firmato con la PTK, la società di posta e telefonia pubblica del Kosovo, per via di alcuni articoli in cui abbiamo criticato le modalità in cui era stato condotto il processo di privatizzazione di questa azienda. Lo stesso meccanismo avviene anche a livello locale. Su oltre trenta municipalità, solo due hanno in essere un contratto pubblicitario con la nostra testata.
Non si può per questo dire che la libertà di stampa sia morta in Kosovo, ma ogni anno le voci indipendenti e libere sono sempre di meno. Ogni giornalista deve fare i conti con la propria vita e portare lo stipendio a casa, quindi sempre in più accettano di assecondare i politici. So che dall’esterno può apparire un paradosso, ma quando non eravamo ancora liberi, noi giornalisti eravamo in grado e nelle condizioni di produrre un’informazione più indipendente di quanto possiamo fare ora. Dopo l’indipendenza tutto è più complicato perché la libertà di stampa non è più una priorità, nemmeno per gli attori internazionali. La stabilità del paese, la sicurezza regionale e il dialogo con la Serbia sono questioni ritenute da molti come più importanti. Al contrario, io penso che sia più urgente completare l’opera di creazione di uno stato democratico.
Un miglioramento della legislazione esistente in materia potrebbe, a suo avviso, portare qualche beneficio alla libertà di stampa?
Non credo che ci sarebbero miglioramenti significativi. Come per il rispetto dei diritti umani, anche per la libertà di stampa ciò che conta è l’implementazione delle leggi e la pressione che l’opinione pubblica riesce ad esercitare sulle istituzioni. In Kosovo se un uomo commette violenza su una donna tra le mura di casa e quest’ultima decide tra mille rischi di denunciare l’accaduto, raramente accade qualcosa. Il colpevole non viene punito e quindi compirà lo stesso gesto di nuovo. Lo stesso avviene con i media indipendenti.
Abbiamo, tuttavia, ricevuto dei buoni segnali dalla società civile. Recentemente, il parlamento aveva deciso di introdurre una modifica al codice penale in base alla quale un giornalista che si fosse rifiutato di rendere note le proprie fonti a un pubblico ufficiale poteva essere punito anche con l’arresto. Chiaramente questa norma era una palese violazione della libertà di stampa. Per questo motivo, si è creato nel paese un forte movimento composto da ong, associazioni, giornalisti e singoli cittadini che, rivolgendosi alla Presidente della Repubblica, hanno richiesto e ottenuto la cancellazione di tale modifica. E’ stato tuttavia singolare registrare il silenzio delle diplomazie occidentali su questo episodio. Ha fatto eccezione l’ambasciatore americano, il quale ha dichiarato che si trattava di un fatto interno sul quale gli USA non intendevano esprimersi. Al contrario, io penso che la libertà di stampa sia un patrimonio di tutti e come da tale da tutti vada difesa.
Registriamo questo tipo di attenzione da parte della società civile anche in occasione delle elezioni politiche. Ma democrazia non significa solamente andare a votare ogni quattro anni: democrazia è anche costruire istituzioni trasparenti e indipendenti e attivare meccanismi di vigilanza sul loro corretto funzionamento. E’ per questo motivo che, ad oggi, siamo una società e uno stato democratico solo sulla carta e non nella sostanza.
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