Elvira Dones è nata a Tirana, è cittadina svizzera e ora vive negli Stati Uniti. Il suo nuovo libro, Una piccola guerra perfetta, scritto in italiano, racconta l'orrore della guerra in Kosovo, partendo dalle testimonianze della gente che quella guerra l'ha vissuta. Nostra intervista
Com'è nata l'idea di scrivere questo libro?
Era un libro inevitabile, nato sin dai giorni della guerra in Kosovo. All'epoca vivevo in Svizzera, lavoravo per la televisione. Seguivo quello che stava succedendo e dicevo ai miei colleghi: dobbiamo andare in Kosovo, sta per avvenire un'escalation, siamo alla vigilia di un conflitto. Mi dicevano di lasciar perdere, che non sarebbe successo nulla, che vedevo tutto con troppo pathos perché ero di quelle parti e amavo il Kosovo.
I fatti hanno dato ragione al mio patetismo. Avevo degli amici e conoscenti in Kosovo e numerosi kosovari vivevano in Svizzera. Così ho vissuto tutto molto da vicino, 24 ore su 24, notizia dopo notizia. Non potevo farne a meno. Mi sono detta che un giorno avrei descritto questo orrore. Lo spunto concreto me l'ha dato una donna, che mi ha chiamata cinque mesi dopo la guerra. Mi ha invitata a un incontro letterario a Pristina per parlare di un mio libro.
E' stato sorprendente, perché non ero mai stata invitata in Albania, nonostante ci fossero stati vari convegni sui temi delle mie opere. Mi chiamavano invece nel Kosovo ferito e sconvolto, appena uscito dal conflitto. Ho accettato, ci sono andata. Mi hanno sistemata al Hotel Grand, al sesto piano. L'albergo, il più lussuoso del Kosovo jugoslavo, era ridotto in malo modo. Avevano appena iniziato a ricostruirlo. C'erano macchie di sangue ovunque, il tavolo era inchiodato sul pavimento, respiravi guerra in ogni luogo, però la gente reagiva con sobrietà. Mi ha stupito quel loro modo di non esagerare il dolore. Mi raccontavano le loro storie, elencavano fatti a sangue freddo, senza battersi il petto. Il libro era nato così dentro di me. Raccolto il materiale, ho aspettato qualche anno perché si attenuasse l'inevitabile pathos.
Perché un'albanese di Tirana decide di scrivere sul Kosovo? Normalmente la sua generazione in Albania non ha un legame con il Kosovo e spesso ha scarse informazioni, per lo più stereotipate.
La guerra del Kosovo non era una guerra altrui. Era la nostra guerra. Io l'ho vista come una guerra albanese. In maniera emotiva intendo. Sono ritornata varie volte in Kosovo per documentarmi, sono andata di casa in casa, ho incontrato persone, su suggerimento di alcune donne che facevano parte di ONG. Anche loro mi hanno accolto con lo stesso scetticismo: “Come mai tu dall'Albania vieni qui a raccontare il nostro dolore, che non è anche il tuo?”. Invece penso che la guerra fosse di tutti noi, perché siamo due gemelli divisi, ma non possiamo negare di avere la stessa lingua, la stessa cultura. Ci sono delle differenze. Ma ci capiamo molto bene.
Quindi, era la nostra guerra, contro i serbi?
No. Lo dico con enorme dispiacere. L'Europa ha fatto finta di non vedere quanto accadeva durante gli anni del pacifismo di Rugova. La stessa cosa sta avvenendo ora con la Libia e la Siria. La storia si ripete, fino a quando la guerra diventa inevitabile. Non volevo glorificare la guerra, per me lo scopo era quello di raccontare cosa avviene con la gente quando piovono le bombe. Quelle case, quegli uomini, quelle donne, quella gente massacrata parla la nostra lingua.
Che tipo di difficoltà ha incontrato mentre raccoglieva il materiale?
Difficoltà irrilevanti. Per fortuna avevo girato molto il nord dell'Albania, vi avevo trascorso quattro mesi. Quando avevo difficoltà linguistiche, i miei conoscenti di Pristina mi sono stati molto d'aiuto. Anche gli intervistati cercavano di parlare piano e di spiegarsi nel modo più chiaro possibile. Ho affrontato tutto con enorme apertura. Non volevo passare per cinica. Però naturalmente ho ricevuto dei commenti poco piacevoli, in particolar modo a Pristina. Alcuni mi dicevano: “Tu non puoi scrivere su questo, perché queste sono le nostre cose”. Ma io non condivido questo punto di vista. Ognuno può scrivere la propria versione, le parole sono a disposizione di tutti.
Che tipo di esperienza è stata dal punto di vista psicologico?
Mi sono sempre occupata di temi forti, anche negli Stati Uniti. Non era nulla di nuovo per me. Quando fai tutte queste esperienze, ti sembra di aver acquisito familiarità con il dolore, di essere diventata immune, si sviluppano alcuni meccanismi di autodifesa, credi di aver visto tutto, ma non è così. C'è sempre un nuovo dolore e nel caso del Kosovo è stato ancora più difficile. Non scorderò mai quando alcune donne decisero di raccontarmi la loro storia. Era una giornata freddissima, le trovai sedute nei shilté (materassi sottili di tradizione ottomana da mettere sopra i divani o per terra, ndr). Con me c'era anche uno psicologo. Parlarono per ore. Il sole tramontò, scese la notte e rimasero solo le loro voci al buio, che raccontavano le atrocità della guerra e come sono riuscite a sopravvivere in condizioni disumane. Parlavano con dignità e sangue freddo, a stento trattenevo le lacrime. E' stato difficilissimo rispettare il loro dolore senza patetismo.
Cosa pensavi dopo quest'esperienza?
Quello che penso tutt'oggi. I serbi non hanno ancora fatto mea culpa. I due popoli hanno sempre vissuto insieme, quella terra appartiene a entrambi. Ho sempre pensato che sia insensato dare la colpa a uno, due o venti pazzi. Non erano solo quei pochi a intraprendere la pulizia etnica di due milioni di kosovari. C'era un esercito, non c'era solo Milošević.
Sta dando la responsabilità a un intero popolo? Non pensa che invece siano state per lo più le élite nazionaliste a manipolarlo?
Quando la situazione prende dimensioni di questo genere, viene uccisa della gente, vengono stuprate delle donne. Si tratta anche dello zelo di chi mette all'opera tutto questo, non è solo colpa delle élite. Ci sono casi in cui la colpa è solo di una delle parti e non di entrambe. Se una delle parti inizia a violentare, bruciare, massacrare, la colpa è solo di quella parte non di altri. Quindi la Serbia è colpevole. Non voglio essere attenta e spartire le colpe, quando non è così.
Lei è tra quelli che crede nell'esistenza di un odio atavico tra serbi e albanesi? Nonostante non ci siano stati conflitti tra i due popoli, se non dopo l'approdo del nazionalismo nei Balcani?
Sì, penso si tratti di un odio atavico. Tutti i Balcani soffrono di quest'odio, una malattia che ogni tanto esplode. La storia ci uccide periodicamente. E' successo con la Bosnia, poi con il Kosovo. E' ovvio che ci sono dei serbi buoni, conosco tanti casi di albanesi che si sono salvati grazie ai loro amici serbi, ma questo non giustifica i serbi. Mi sono sempre tenuta su questa posizione. Ad esempio ho rifiutato di firmare la petizione contro il bombardamento della Serbia. Ho chiesto a chi me l'ha passata: “Ma come, a me la date? A me, l'albanese?” Anche se il cuore mi doleva.
Quindi nel '99 riteneva giusto il bombardamento della Serbia?
Non ho una risposta. Tutte le volte che mi faccio questa domanda, ne sorge un'altra: cosa sarebbe avvenuto altrimenti? Gli Usa non sono entrati in guerra per amor del Kosovo. Prima c'era stata Srebrenica e il mondo era stato a guardare. Il Kosovo sarebbe stato, per la coscienza del mondo, un altro Ruanda, un'altra Srebrenica. Non potevano stare a guardare un'altra volta. Il tempismo di questo libro è perfetto perché potrebbe far riflettere su quanto avviene in Libia
Lei conosce gli intellettuali dell'Altra Serbia (Druga Srbija) a Belgrado? Era in qualche modo in contatto con loro?
Leggevo Biljana Srbljanović, Jasmina Tešanović. Mi faceva male al cuore. Da essere umano è impossibile non immedesimarsi con le vittime. Non si può dire: "Non me ne frega nulla, ben gli sta". Ma poi accendevo la TV e guardavo i kosovari. Ed è chiaro che il mio cuore battesse di più per loro. Certo rispettavo l'Altra Serbia, ma non erano abbastanza numerosi e abbastanza forti per contrastare l'ultra nazionalismo del popolo serbo.
In Albania e in Kosovo c'è una forte tendenza a scaricare tutta la responsabilità sui serbi. Ma nel frattempo diversi politici kosovari risultano indagati dal Tribunale dell'Aja: Ramush Haradinaj, Fatmir Limaj, per citare alcuni forse tra i più famosi. Sono numerosi i sospetti sul traffico degli organi tra Albania e Kosovo. Questi non sono elementi degni anche di un mea culpa albanese?
L'élite deve assumersi le proprie responsabilità. Sarebbe poco costruttivo pensare che noi siamo delle vittime perfette e che non abbiamo commesso crimini. La leadership dell'UCK non dev'essere al di sopra della legge. E' superfluo dire che la giustizia deve fare il suo dovere anche in Kosovo.
Scriverebbe un libro sul dramma dei serbi del Kosovo oggi? Parlare della condizione dei serbo-kosovari è un altro grande tabù in Albania e in Kosovo.
E' indispensabile parlarne. Se potessi, lo farei senz'altro. E' un loro diritto vivere su quella terra. La civiltà di un Paese traspare nel modo in cui esso tratta le minoranze nel suo territorio. I kosovari, essendo stati i cittadini più poveri e più impresentabili della Jugoslavia, sono stati mandati in vacanza forzata. Ora non possono permettersi di comportarsi allo stesso modo con le loro minoranze. E la soluzione non viene solo dalle leggi o dagli slogan politici.
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