Il neo-premier socialdemocratico Zoran Zaev rilancia le prospettive di integrazione della Macedonia in Ue e Nato partendo dai vitali rapporti coi vicini. Progressi con Grecia e Bulgaria, momenti di tensione con la Serbia
Dopo aver ripetutamente rischiato il tracollo istituzionale, la Macedonia rilancia le proprie prospettive di integrazione euro-atlantica, bloccate negli ultimi anni da feroci spaccature interne e da questioni irrisolte coi paesi vicini.
La svolta è arrivata lo scorso maggio, con la nascita del governo socialdemocratico di Zoran Zaev, che ha riaperto i negoziati con Atene sull'annosa questione del nome, per poi firmare uno storico trattato di buon vicinato con la Bulgaria.
Un'azione decisa che ha fatto ripartire il cammino della Macedonia (candidato membro dal lontano 2005) verso l'Ue e Nato, ma che ha segnato momenti di forte tensione a livello regionale, soprattutto con l'ingombrante vicino serbo.
La creazione del governo Zaev ha messo fine al periodo più drammatico della storia recente macedone. A inizio 2015 Zaev, allora a capo dell'opposizione, rese pubbliche una serie di registrazioni compromettenti a carico del premier di centro-destra Nikola Gruevski, da un decennio dominatore incontrastato della scena politica locale.
Secondo l'opposizione le intercettazioni, di provenienza mai chiarita, avrebbero provato corruzione e gravissime violazioni da parte di Gruevski, tra cui l'aver spiato per anni più di 20mila cittadini macedoni. Gruevski ha però respinto ogni accusa ed ha denunciato “un complotto voluto da potenze straniere” - scegliendo la strada del muro contro muro.
E' seguito un lungo negoziato tra le parti, facilitato da Stati Uniti ed Unione europea, che ha portato alla creazione di una procura speciale sulle accuse al governo e ad elezioni anticipate tenute – dopo vari tentativi andati a vuoto – nel dicembre 2016.
Dalle urne, però, la Macedonia è uscita nuovamente spaccata: la VMRO-DPMNE di Gruevski ha vinto di un soffio, ma è rimasta senza alleati. I socialdemocratici, in alleanza con alcuni partiti albanesi, avevano i numeri per governare, ma il presidente Gjorgje Ivanov (eletto coi voti VMRO) non ha concesso loro il mandato, accusandoli di voler dividere il paese su basi etniche.
La tensione è esplosa a fine aprile, quando dopo l'elezione a presidente del parlamento dell'albanese Talat Xhaferi decine di sostenitori di Gruevski sono penetrati in aula picchiando a sangue vari deputati, Zaev compreso.
Con lo spettro di una guerra civile alle porte, i negoziati e le pressioni internazionali si sono fatti pressanti: alla fine Ivanov (e Gruevski) hanno ceduto, e il mese successivo Zaev ha potuto lanciare il suo esecutivo, sostenuto da una risicata maggioranza in parlamento (62 voti su 120).
Consapevole della necessità di un forte sostegno internazionale, Zaev ha messo il rilancio delle prospettive euro-atlantiche in cima alla lista delle sue priorità. Per farlo il neo-premier – in collaborazione col nuovo ministro degli Esteri Nikola Dimitrov – ha subito lanciato segnali di distensione a Bulgaria e Grecia, i vicini che tengono le chiavi di accesso di Skopje a Ue e Nato, e con cui i rapporti erano drasticamente peggiorati durante il governo di Gruevski, spintosi sempre più su posizioni nazionaliste e vicine alla Russia di Putin.
L'azione del tandem Zaev-Dimitrov ha portato subito ad un risultato importante nei rapporti con la Bulgaria. Dopo quasi vent'anni di attesa, a inizio agosto i due governi hanno firmato a Skopje uno storico trattato di buon vicinato.
L'intesa impegna i due paesi a superare le incomprensioni reciproche, che riguardano soprattutto l'interpretazione divergente di fatti e personaggi storici contesi. Skopje ha rinunciato di fatto ad ogni pretesa sulla contestata minoranza macedone in Bulgaria in cambio dell'appoggio di Sofia – presidente di turno dell'Unione europea nel primo semestre 2018 – all'avvicinamento macedone a Ue e Nato.
Contemporaneamente è stato rilanciato il negoziato con la Grecia sulla questione del nome, per Skopje il nodo fondamentale da sciogliere. Fin dall'indipendenza dalla Jugoslavia (1991) la Grecia rifiuta il nome costituzionale della Macedonia, che considera parte integrante della sua eredità storico-culturale, e una possibile rivendicazione sulla sua provincia settentrionale che porta lo stesso nome (Atene insiste sull'uso provvisorio dell'acronimo FYROM – Former Yugoslav Republic of Macedonia).
Dopo uno scambio di visite di cortesia tra Dimitrov e il suo omologo greco Nikos Kotsias, è stato annunciato che il negoziato vero e proprio, al palo dal 2014, dovrebbe ripartire entro l'inizio del 2018.
In un clima di generale ottimismo, la rinnovata azione macedone ha fatto però segnare un momento di forte tensione con la Serbia. A fine agosto, in una mossa senza precedenti, l'intero personale dell'ambasciata serba a Skopje è stato richiamato in patria: una decisione drastica rientrata qualche giorno più tardi e rimasta in gran parte senza spiegazione.
La leadership di Belgrado ha parlato di risposta ad “azioni di intelligence contro la Serbia” alludendo forse ad attività di spionaggio: c'è però chi ipotizza una reazione all'intesa con la Bulgaria, tradizionale concorrente della Serbia per l'influenza sulla piccola Macedonia.
Quale che ne siano i reali motivi, lo screzio con Belgrado ha ricordato alla nuova leadership macedone di muoversi in un contesto – quello balcanico – fatto di delicati e spesso fragili equilibri.
Per ora l'opinione pubblica macedone – da sempre largamente pro-UE – sembra apprezzare il dinamismo di Zaev. Una prima verifica già bussa alle porte: a metà ottobre, si terranno infatti le prossime elezioni amministrative. I risultati saranno di fondamentale importanza per il governo a guida socialdemocratica e le ambizioni di riaprire la strada verso l'integrazione euro-atlantica di Skopje.
Questa analisi è stata pubblicata il 21 settembre sul sito dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) col titolo "La Macedonia è uscita dalla crisi, con nuove speranze (e vecchi problemi)"
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