La crisi migranti in Macedonia, il comportamento delle autorità e lo stato di emergenza. Cosa dovrebbe fare Skopje e cosa fanno i cittadini. Un commento
La Macedonia, o meglio “il piccolo paese balcanico”, nella definizione di molti media internazionali, nei giorni scorsi è stata a lungo sotto i riflettori. Le drammatiche immagini dal confine greco-macedone hanno fatto il giro del mondo, con tv e i giornali che hanno aperto sulla crisi dei rifugiati. Da una parte migranti e richiedenti asilo, dall'altra lo schieramento delle forze di polizia e, nel mezzo, i rotoli di filo spinato.
La situazione si è evoluta di ora in ora, con sviluppi imprevedibili: lo “spettacolo live”, prodotto dall'incapacità di gestione del governo di Skopje, è durato per tre giorni. Poi le frontiere sono state riaperte, i migranti hanno ripreso il loro doloroso cammino verso l'Unione europea, e “il piccolo paese balcanico” è tornato in ombra. Ma per quanto ancora?
Stato d'emergenza
Nelle scorse settimane il numero di chi ha attraversato il confine greco-macedone è aumentato da cinquecento a circa tremila persone al giorno. Secondo le statistiche ufficiali, circa 50mila persone, soprattutto da Siria e Afganistan, hanno attraversato la Macedonia negli ultimi due mesi. Di fronte alla crisi provocata dagli arrivi massicci, il 19 agosto le autorità macedoni hanno chiesto ai paesi vicini l'invio di vagoni ferroviari, appello però caduto nel vuoto. Il giorno seguente, il governo di Skopje ha deciso quindi di dichiarare lo stato di emergenza nell'area di confine con la Grecia, a sud, e in quella sulla frontiera con la Serbia, a nord.
In termini pratici, questo significa la possibilità di utilizzare anche l'esercito, e non solo la polizia, nella gestione della situazione. “Il meccanismo temporaneo”, secondo il comunicato ufficiale del governo, “serve ad aumentare la sicurezza della popolazione locale” e avrebbe dovuto portare “ ad un controllo efficiente dell'attraversamento del confine” insieme ad un “trasporto più umano dei rifugiati attraverso il territorio della Macedonia”. Sfortunatamente, però, lo “stato temporaneo di emergenza” ha portato ai risultati opposti a quelli dichiarati.
Sulla terra di nessuno
Dopo la chiusura del confine con la Grecia, l'accesso alla Macedonia è stato garantito solo ad un numero limitato di rifugiati. Il numero di persone intrappolate sulla “terra di nessuno” è quindi aumentato drasticamente, fino a raggiungere dimensioni insostenibili. Circa 4mila rifugiati e migranti hanno tentato disperatamente di passare i blocchi, per poter continuare il proprio viaggio verso l'Unione europea. La situazione è divenuta presto insostenibile, portando agli incidenti catturati dalle telecamere e riproposti dai media a livello globale, con le unità speciali della polizia impegnate a lanciare lacrimogeni contro i rifugiati e provocando alcuni feriti. Il giorno seguente, per giustificare le proprie azioni, la polizia macedone ha pubblicato un video in cui si vedrebbero alcuni rifugiati lanciare sassi contro le forze dell'ordine, attacco che avrebbe poi provocato la reazione della polizia. Dopo tre giorni e in seguito ad enormi pressioni, il confine è stato riaperto e la “rotta balcanica” è divenuta nuovamente transitabile.
Il principio di non-respingimento
Varie organizzazioni internazionali sottolineano che tutti i paesi hanno il dovere di offrire protezione a chi fugge da conflitti e persecuzioni, e la Macedonia non fa eccezione. “Quando il sistema non riesce a fronteggiare la situazione, è tempo di migliorarlo, ma non si possono respingere le persone”, è la posizione sui recenti fatti di Gauri van Gulik, vice-direttore di Amnesty International Europa.
Anche varie ONG macedoni hanno criticato le mosse del governo, ricordando che anche la Macedonia è legata al principio di “non respingimento”, secondo il quale nessun richiedente asilo può essere costretto a tornare in un paese nel quale la sua vita o libertà personale possono essere minacciate a causa della propria identità etnica, religiosa, politica.
Human Rights Watch ha consigliato alle autorità macedoni di cercare a livello internazionale cooperazione e assistenza per poter venire incontro ai propri obblighi. Ad oggi, sulla questione dei migranti, l'UE ha fornito a Skopje fondi umanitari per appena 90.656 euro, ma secondo le stime ufficiali, la Macedonia ha speso 800mila euro al mese solo per rafforzare l'azione di controllo della polizia sul proprio confine meridionale.
Altra questione sollevata dalle istituzioni macedoni è la mancanza di coordinamento regionale e di cooperazione con i propri omologhi greci. Un problema riconosciuto e sottolineato anche dall'UNHCR in un recente comunicato stampa.
“L'UNHCR fa appello alle autorità greche affinché procedano alla registrazione e alla fornitura di servizi di base per coloro che necessitano di protezione internazionale, e perché forniscano assistenza urgente a chi è bloccato sul lato greco del confine [con la Macedonia] e far sì che possa essere ospitato in strutture ricettive lontane dalla frontiera”, recita il comunicato dell'Alto commissariato ONU per i rifugiati.
Arriva l'inverno
Da mesi, privati cittadini, organizzazioni informali ed ONG si sono organizzati per raccogliere e distribuire aiuti ai rifugiati, anche attraverso i social media. Ad attrarre l'attenzione dei media è stata la storia di Lence Zdravkin, ribattezzata “una moderna Madre Teresa”, che per più di un anno ha aiutato i rifugiati di passaggio vicino alla sua casa a Veles (città situata sulla rotta principale dei migranti) ben prima che il fenomeno arrivasse sulle prime pagine dei giornali.
Nel giugno scorso, in seguito a forte pressione da parte dell'opinione pubblica, il governo ha modificato la normativa sull'asilo, dando la possibilità ai rifugiati di richiedere un “asilo temporaneo” di 72 ore al confine o alla stazione di polizia più vicina, insieme al diritto di utilizzare la sanità e i trasporti pubblici.
Tenendo conto di queste iniziative, del fatto che il confine con la Serbia resta aperto e che la destinazione finale dei rifugiati sono i paesi dell'Unione europea, è piuttosto difficile comprendere perché il governo macedone abbia deciso di chiudere il confine con la Grecia, anche prendendo in considerazione la tentazione di un approccio politico populista. Fino ad ora, gli unici “problemi” provocati dai migranti ammontano a cartacce gettate nelle stazioni ferroviarie e alcuni casi di furto di frutta e verdura nei campi intorno a Gevgelija. Ma se escludiamo questioni marginali di questo tipo, non c'erano motivi reali per portare le autorità a prendere una decisione tanto drastica. Invece di concentrarsi sulle difficoltà di gestione del problema, o sul chiedere maggiore sostegno dall'Unione europea per fronteggiare il momento di crisi, il governo ha scelto l'alternativa più impopolare e disumana.
Esperti e attivisti hanno sottolineato che la chiusura prolungata del confine porta, come unico risultato, ad una maggiore vulnerabilità dei rifugiati verso i trafficanti, e nell'aumento dei rischi intrapresi da chi tenta di entrare e attraversare il territorio macedone. Tra questi, la scelta di camminare lungo le rotaie del treno: una scelta che, tra gennaio e giugno 2015 è costata la vita ad almeno 28 persone.
Dal punto di vista macedone, la scelta migliore per il governo sarebbe registrare, dare una sistemazione dignitosa ai rifugiati e rendere possibile ai migranti l'attraversamento veloce del paese fino al confine con la Serbia. Fino ad oggi gli incidenti legati alla presenza dei rifugiati si contano sulla punta delle dita, ma una presenza più visibile della polizia sarebbe probabilmente utile.
Questi passi, soprattutto dopo la decisione dell'Ungheria di erigere un reticolato di quattro metri al confine con la Serbia, dovrebbero essere presi con rapidità. Quando la barriera ungherese sarà completata, infatti, la “rotta balcanica” potrebbe assumere tutt'altra forma, e non è escluso che i paesi della regione possano trasformarsi da paesi di transito a destinazioni finali. E l'inverno non è poi così lontano.
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