Bar vecchia © Lukas_Vejrik/Shutterstock

Bar vecchia © Lukas_Vejrik/Shutterstock

Il Mediterraneo è dove crescono l'ulivo, il frumento e il melograno. Ecco perché, racconta Fabio Fiori nelle sue peregrinazioni adriatiche, la città montenegrina di Bar, circondata di melograni selvatici, si fonde e abbraccia l'anima del grande mare

14/08/2024 -  Fabio Fiori Bar

Il Mediterraneo è un mare, ma anche un ambiente più ampio che secondo alcuni corrisponde al perimetro di diffusione dell’ulivo. Un areale mutevole nel tempo, in relazione al clima e all’uomo, perché la pianta ha bisogno di idonee condizioni ambientali e colturali. Mediterraneo e ulivo, Mediterraneo è ulivo. Pianta sacra per gli antichi greci, legata alla dea Atena, da venere e coltivare.

Melograno a Bar, Montenegro - Foto F. Fiori

Melograno a Bar, Montenegro - Foto F. Fiori

Pianta della triade mediterranea, che si completa con vite e frumento, senza però dimenticarne altre, tra cui un posto d’onore spetta al melograno, dei cui frutti si nutre Persefone, figlia di Demetra e sposa di Ade. “Quando Persefone assaggiò la melagrana cresciuta nei giardini tenebrosi, la morte subì un mutamento”, perché la fanciulla portò nel regno dei morti “il sangue invisibile che continuava a pulsare nelle sue braccia bianche, il sangue di chi continua a essere pienamente vivo, anche nel palazzo della morte”, scrive un leggendario aedo italiano: Roberto Calasso.

Perciò il Montenegro, Crna Gora in montenegrino, letteralmente montagna nera, è per me la prima, amata, terra orientale adriatica di Persefone, perché è lì che il melograno cresce selvatico, impreziosendo anche i margini stradali, i ruderi, gli incolti, quel terzo paesaggio che è oggi scrigno di biodiversità e selvatichezza. Perciò scelgo l’ombra di un melograno, cresciuto a ridosso di un muro medievale, per appuntare le mie impressioni sul Castello di Bar.

Un’area archeologica valorizzata, in parte ricostruita e riorganizzata negli anni Ottanta del Novecento grazie all’aiuto di tutti i popoli della Jugoslavia, si legge all’ingresso del parco che, almeno per me, diventa anche un parco della fratellanza. Qui le antiche pietre raccontano storie di pace e guerra, perché ci sono forni e torri, di cristiani e musulmani, perché la Cattedrale di san Giorgio costruita alla fine del XII secolo venne trasformata in moschea nel 1649, di porte e mura, di stanziali e nomadi.

Questi ultimi avevano in età medievale un loro ostello, riorganizzato poi in masjid, cioè moschea senza minareto. Qui scopro la parola putnik, cioè viandante in montenegrino, che ai miei orecchi suona come un fantasioso sincretismo tra put, sentiero in montenegrino, e nike, vittoria in greco. Dall’alto delle rovine della Tatarovica, la fortezza superiore, si vede la città nuova, il porto e il mare.

Un Adriatico islamico, incorniciato tra coppie di minareti; un Adriatico ortodosso riflesso nelle cupole dei campanili, un Adriatico montenegrino su cui sventola la bandiera rossa bordata d’oro, con aquila bicefala dorata e leone passante.

Bar è Antibari, nella sua storica dualità portuale con la dirimpettaia Bari. Bar è Antivari, nella sua novecentesca dimensione ferroviaria. Linea ferrata progettata e realizzata nel 1908 dalla omonima Compagnia, fondata da imprenditori italiani, che realizzò la tratta Belgrado-Antivari. Ed è proprio alla vecchia, trasandata ma fascinosa, stazione che si conclude la mia breve flânerie antivarina.

Oggi sono solo una decina le partenze e altrettanti gli arrivi; collegamenti con Podgorica, Bijelo Polje e Belgrado. Viaggi lunghi, perciò immagino affascinanti. L’espresso 432 parte alle 19:00 e arriva a Belgrado Centrale alle 6:08. Viaggi di cui neanche Google dà informazioni, undici ore per 500 chilometri. Mi fermo a un tavolino del bar e bevendo un bicchiere fresco di vino od nara, vino di melagrana, studio una vecchia carta della linea ferroviaria trovata in rete.

Sogno un nuovo viaggio, dalle rive dell’Adriatico a quelle del crocicchio acque belgradese, tra il Danubio e la Sava, attraverso le montagne sacre del vladika Njegoš, il principe-vescovo e poeta, il Dante montenegrino. Porterò con me una melagrana, mangiandone qualche chicco, di stazione in stazione, recitando a voce alta una preghiera apocrifa: “Allora Persefone ricordò i chicchi della melagrana, quel sapore dolce e asprigno, che ancora, come una lontana memoria, le impregnava la saliva.”.


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