La città abbandonata di Agdam, Nagorno Karabakh (Foto Theonlymikey, Flickr)

La città abbandonata di Agdam, Nagorno Karabakh (Foto Theonlymikey, Flickr )

A vent'anni dal cessate il fuoco, il processo di pace in Nagorno Karabakh è congelato. Per evitare la crescente militarizzazione delle società armena e azera, e una nuova guerra, esistono molte strade che possono essere percorse

30/10/2013 -  Laurence Broers*

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su commonspace.eu

Il conflitto armeno-azero per il Nagorno Karabakh (NK) non attira molti titoli di giornale in questo periodo, ma chi lo segue con attenzione percepisce un crescente senso di urgenza. L'anno prossimo saranno passati vent'anni dal cessate il fuoco: nonostante le cinque diverse proposte e qualche scampato pericolo per il processo di pace, il quadro generale è di arroccamento, crescente militarizzazione e contagio del conflitto in tutte le sfere della vita politica in Armenia e Azerbaijan.

Il rischio di una guerra per caso

L'Armenia e gli armeni del NK, vincitori della guerra del 1991-1994, difendono con pervicacia lo status quo, occupando anche ampie fasce di territorio azero. Territori una volta pedine di scambio sono sempre più visti come organici e irrinunciabili. Mollare la presa diventa più difficile ogni giorno che passa, ma conservare quei territori rappresenta una dimostrazione di forza che indebolisce le pretese armene su altri aspetti del conflitto.

L'Azerbaijan, trasformato nel corso degli ultimi cinque anni dalla ricchezza prodotta dai petrodollari del Caspio, guida una corsa agli armamenti da 4 miliardi di dollari l'anno. La retorica bellica è diventata parte integrante del volto pubblico del regime di Aliyev, chiudendo la porta ad alternative non violente. Al momento nessuno sa che cosa significhi la promessa del "più alto livello di autonomia nel mondo" per il Karabakh armeno; l'unico punto di riferimento è la Regione Autonoma di epoca sovietica, che ci porta indietro di 25 anni alle cause del conflitto. Una strategia di soft power per la trasformazione nonviolenta del conflitto era possibile, ma nel corso dell'ultimo decennio l'Azerbaijan sembra aver optato per le maniere forti.

Tensioni e minacce reciproche non sono nuove, ma il militarismo crescente va giudicato alla luce di altri due fattori. Il primo è l'ampiezza del dispiegamento militare sul terreno: lungo una linea di contatto di 160 miglia si fronteggiano circa 40.000 soldati, molti dei quali matricole. Negli ultimi anni, le frequenti scaramucce hanno causato un crescente numero di vittime. C'è un rischio concreto di guerra accidentale, di un'escalation involontaria che sfugga di mano. Non ci sono linee di comunicazione lungo tutto il fronte, e la capacità internazionale di condurre indagini sugli incidenti è minima. Inoltre, gli armamenti di nuova acquisizione renderebbero una nuova guerra molto più ampia e distruttiva della precedente. Con gli attuali schemi di alleanza geopolitica, le ricadute potrebbero essere difficili da circoscrivere. Improbabile una guerra dei cinque giorni del genere visto in Georgia nel 2008; legittima la preoccupazione che le leadership armene e azere si siano cacciate in un terribile gioco di posizione con poco spazio di manovra.

La militarizzazione della società

Il secondo fattore è il lento deterioramento delle relazioni Stato-società in entrambi i Paesi. Fare opposizione e promuovere il pluralismo è diventato un gioco sempre più pericoloso: un gioco per chi detiene il potere, pericoloso per chi lo mette in discussione. Il numero di armeni che hanno deciso di esprimere il proprio dissenso prendendo la via dell'emigrazione è un problema serio nel paese, mentre l'Azerbaijan è stato scosso da esplosioni di protesta popolare contro il malgoverno locale. Al di là della natura – esterna o interna – di queste manifestazioni di scontento, è chiaro che il crescente militarismo si sta sviluppando in un contesto di relazioni Stato-società sempre più impoverite e disfunzionali, cosa che ignoriamo a nostro rischio e pericolo.

Che cosa dovrebbe fare la comunità internazionale, ovvero noi? In primo luogo, aggiornare il nostro kit di strumenti concettuali. Usare per il Karabakh categorie intrinsecamente statiche, retrospettive e intellettualmente pigre come “conflitto congelato”, "né guerra, né pace" o "conflitto post-sovietico" asseconda un senso di autocompiacimento non giustificato dall'attuale situazione sul campo. Questo conflitto ha sempre meno in comune con la Transnistria o l'Abkhazia e sempre di più con rivalità inter-statali di lungo periodo del genere visto tra India e Pakistan, le due Coree o Israele e alcuni vicini arabi. Questo accostamento potrebbe sembrare pessimista, ma un'analisi comparativa di questi contesti – e dei casi di risoluzione di successo – sembrerebbe opportuna.

In secondo luogo, se accettiamo questo tipo di ri-contestualizzazione del conflitto, ne consegue che dovremmo anche rivedere le nostre strategie per risolverlo. Abbiamo vissuto per molti anni con l'idea che un processo di pace mediato a livello internazionale porti gradualmente verso un accordo. Tuttavia, come dimostra anche la storia dei colloqui di pace in Karabakh, questa idea è nettamente in contrasto con i processi reali, controllati e non controllati, in corso in Armenia e Azerbaijan. Non è il conflitto ad essere stato congelato, ma il processo di pace, come la superficie di un fiume ghiacciato sotto la quale continuano a fluire correnti sconosciute.

O tutto o niente

Il nostro pensiero strategico è bloccato dal divario tra progresso auspicato e realtà dell'impasse. Si pensa che mantenere congelato il processo di pace sia il male minore, e che la gestione del conflitto sia il massimo che si possa sperare. Sembra che l'unica scelta sia fra un accordo di pace, che a questo punto sembra utopico al limite del fantastico, o una nuova guerra. Scelte “o tutto o niente” come questa sono estremamente attraenti per leader semi-autoritari, ma hanno pesanti implicazioni, presenti e future, per chi è più vicino alla prima linea. Perché l'orizzonte di possibilità deve essere definito in termini così ristretti, e da chi? Nonostante le prevedibili obiezioni azere contro il radicamento dello status quo e quelle armene in materia di sicurezza, credo che aprire e diversificare questo menù sia una priorità per il processo di pace in Karabakh.

Ci sono un certo numero di organizzazioni europee di peace-building che lavorano con partner locali verso questo obiettivo, tra cui un consorzio finanziato dall'Unione europea e noto come European Partnership for the Peaceful Resolution of the Conflict over Nagorno-Karabakh (EPNK). Sosteniamo le iniziative armeno-azere per la ricerca e il dialogo, i contatti tra le persone, il lavoro transfrontaliero dei media e l'attivismo con i giovani, le donne e le comunità sfollate. Chi è esposto solo alla guerra dell'informazione nei media internazionali rimane regolarmente sorpreso del livello di interazione raggiunto. Ma questi sforzi rimangono, purtroppo, di basso profilo. I budget sono una frazione di ciò che viene speso per le campagne di comunicazione finanziate dallo Stato o i nuovi armamenti. I nostri partner nella società civile sono impegnati su più fronti. E molti – insider e outsider – trovano l'agenda petrolifera e del gas più stimolante del processo di pace nella regione.

Quale via di mezzo?

Questi sono alcuni dei motivi per cui è difficile ritagliare una terza via fra una nuova guerra e un accordo di pace eccessivamente utopico. Eppure vi è una vasta gamma di vie di mezzo che possono essere adottate, in primo luogo dai governi di Armenia e Azerbaijan, per introdurre una nuova dinamica nella situazione attuale. Innanzitutto, abbandonare la retorica militaristica perché, nelle parole di uno dei nostri partner, "anche il miglior piano di pace fallirebbe nel clima attuale". Più concretamente, in termini di prevenzione, altre soluzioni potrebbero essere il ritiro dei cecchini, reintrodurre linee di comunicazione che attraversino la linea del fronte e creare meccanismi di indagine più robusti in caso di incidente da parte delle organizzazioni internazionali.

Le visite transfrontaliere, abbastanza regolari prima del 2003, dovrebbero essere reintrodotte nel repertorio di iniziative armeno-azere. Gli sfollati dovrebbero essere autorizzati a visitare le loro comunità d'origine in sicurezza e dignità, perché chi lo desidera possa ristabilire i legami. Questa iniziativa dovrebbe essere reciproca, vale a dire su entrambi i lati del conflitto, per garantirne la legittimità. Progetti pilota potrebbero sostenere il ritorno degli sfollati, il restauro di monumenti e la loro conservazione comune come ponte tra le comunità, anziché essere usati come simboli della loro distruzione. Piuttosto che spendere soldi in nuovi libri che cercano di dimostrare che gli armeni non fanno parte del Caucaso, l'Azerbaijan potrebbe istituire un Fondo culturale armeno, promuovere il recupero del patrimonio in modo collaborativo e invertire le tendenze distruttive degli ultimi anni. E piuttosto che permettere e promuovere mappe che raffigurano il bottino di guerra come territori organici, Armenia e NK potrebbero pianificare il ritorno dei territori occupati sotto la giurisdizione azera.

Queste idee sono senza dubbio considerate ingenue, impraticabili e pericolose, soprattutto da chi è al potere: rafforzano lo status quo, compromettono la sicurezza. Ma sono di gran lunga più modeste di quelle contenute nei principi di Madrid che sono stati discussi al tavolo dei negoziati di più alto livello per oltre cinque anni. Quello che tali iniziative potrebbero raggiungere è la liberazione delle società armena e azera da una politica permanente di autoritarismo securitario e scelte “o tutto o niente”.

Qual è l'alternativa? Se la via di mezzo “positiva” è più realistica di un accordo di pace utopico, quella “negativa” è più reale di una nuova guerra. Questo è ciò che abbiamo oggi in Armenia e Azerbaijan: un conflitto che avvelena lentamente tutti i campi della vita sociale e politica. Se ne avvantaggiano coloro che ne fanno uso come arma nelle lotte interne, ma il rischio crescente è che a un certo punto perderanno il controllo e si troveranno ad affrontare una tigre sconosciuta, da loro stessi creata.

*Laurence Broers, è Project Manager per il Caucaso di Conciliation Resources


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