Foto © Nancy Beijersbergen/Shutterstock

In un periodo storico in cui in Italia gli spazi dell'accoglienza si stanno drammaticamente restringendo, l'analisi di alcuni progetti dedicati, negli anni scorsi, a garantire un sostegno alle assistenti familiari provenienti dall'est Europa

01/02/2019 -  Marta Bertagnolli

Con l’inizio del nuovo anno in tutta Italia i progetti di accoglienza per persone richiedenti protezione internazionale stanno subendo, in ottemperanza alla cosiddetta legge “Salvini”, un progressivo ridimensionamento; primo passo che vorrebbe portare, visto il forte calo degli arrivi (derivato anche da un’indisponibilità ad accogliere chi viene salvato in mare e ad accogliere in progetto chi arriva via terra) alla futura chiusura dell’intero sistema di accoglienza.

Gli effetti immediati sono il taglio della scuola di italiano, del supporto psicologico e dei servizi di orientamento al lavoro, finalizzati all’integrazione dei neoarrivati. Stessa sorte qualche anno prima era toccata ad alcuni progetti e servizi nati per favorire il benessere e l’integrazione delle assistenti familiari, meglio conosciute come badanti, molte delle quali provengono da paesi post-socialisti, quali Romania, Moldavia, Ucraina e Polonia.

Un gruppo vulnerabile

Anche se la portata dei tagli ai danni dei progetti di accoglienza per richiedenti asilo non è lontanamente paragonabile a quanto accaduto alle poche esperienze che nel nostro paese si erano occupate del benessere delle lavoratrici domestiche, è rilevante notare come il meccanismo che orienta la chiusura e l’apertura dei servizi destinati alla popolazione migrante sia quasi sempre di tipo emergenziale e soggetto a logiche dettate dalla contingenza politica. Una gestione guidata da presunte “emergenze” che si rincorrono - ieri era l’arrivo dei migranti dall’est, oggi quello dall’Africa occidentale - si ostina a non considerare la popolazione straniera, pari a 5 milioni secondo l’Istat 2018, come a tutti gli effetti stabile e parte integrante del nostro paese. Spesso i servizi pubblici di base (sanità, welfare ecc) risultano impreparati a rispondere adeguatamente ai bisogni e alle peculiarità di alcuni flussi migratori, da qui anche la nascita di progetti compensativi destinati alla popolazione migrante, talvolta esclusa dall’accesso ai servizi di base per via di un particolare status migratorio. Nel caso delle badanti, di cui un terzo risulta irregolare sul territorio e un terzo non possiede regolare contratto di lavoro, è preoccupante il tema della salute. La mancanza di permesso di soggiorno o di regolare assunzione impedisce di fatto l’accesso alle cure, fatta eccezione per quelle emergenziali.

Alcuni progetti, nati nel corso del decennio 2004-2014, erano riusciti a rispondere adeguatamente alla vulnerabilità e all’esclusione sociale vissuta dalle molte assistenti familiari presenti nel nostro paese. Siamo di fronte a un settore lavorativo dove è forte la segregazione etnica e di genere e dove le condizioni di lavoro, spesso svolto in coresidenzialità 7 giorni su 7, portano le donne a vivere situazioni di forte solitudine e disagio, costantemente a contatto la sofferenza e la malattia della persona assistita.

Tre esperienze

I progetti in questione - si tratta di tre esperienze che si sono occupate di assistenti familiari provenienti dai paesi dell’Europa orientale (Romania, Moldavia, Ucraina) - avevano in qualche modo capovolto i ruoli di chi era caregiver e di chi era assistito rendendo le lavoratrici domestiche esse stesse destinatarie di cura. Non solo, avevano pianificato il loro intervento riconoscendo la dimensione familiare implicita nei flussi migratori femminili, dove la madre generalmente migra per provvedere, attraverso l’invio di rimesse, al sostegno economico di chi è rimasto in patria (figli, mariti e genitori).

In linea con quest’ottica hanno favorito, ad esempio, la comunicazione audiovisiva con i familiari, percorsi di sostegno destinati ai figli rimasti a casa, i cosiddetti children left behind, promosso e accompagnato i ricongiungimenti familiari, fornito supporto psicologico e legale.

Tratto distintivo di queste esperienze era una forte attenzione all’identità femminile, alla dimensione amicale, allo status migratorio, al ruolo materno a distanza, quest’ultimo spesso vissuto con sensi di colpa e vergogna dalle donne migranti perché accompagnato da un forte stigma sociale.

Madreperla

Una di queste esperienze viene realizzata nel 2004 a Reggio Emilia con l’intento di contribuire a prevenire l’esclusione sociale e provare a favorire l’integrazione delle donne arrivate dai paesi dell’est che la domenica affollano i giardini pubblici. Il comune apre così uno spazio chiamato “Punto di incontro Madreperla”. Si tratta di un servizio pensato secondo le logiche di una casa, nel quale le donne possono soddisfare determinati bisogni, quali l’intrattenimento, la socializzazione, lo svago.

L’avere un posto dove stare per non dover "sentirsi in prestito” e per non dover "girare molte ore con la borsina per la città" (come ben descritto da una coordinatrice del Punto di Incontro Madreperla), coglie nel segno e sembra rispondere adeguatamente ai bisogni di numerose donne migranti. La possibilità di riposarsi e rilassarsi leggendo o chiacchierando sui divani o anche di festeggiare i compleanni e altre festività assieme, sono le richieste iniziali espresse dalle lavoratrici che frequentano il centro.

Poi progressivamente all’interno del Punto di incontro Madreperla nascono svariati progetti, tra i quali vale la pena menzionare “Carezze al telefono – madri da lontano”, un percorso di sostegno alla genitorialità a distanza curato da due psicologhe. Il nome è tratto dall’espressione che una donna che frequentava Madreperla aveva utilizzato per descrivere il suo rapporto a distanza con il figlio. Il metodo è quello della narrativa in gruppo, attraverso uno scambio di racconti, esperienze e vissuti, le donne migranti, accompagnate dalle psicologhe, hanno provato a rompere il silenzio e la solitudine che spesso contraddistingue l’esperienza delle madri migranti, per cercare di dare coerenza e continuità ai loro percorsi di vita, spesso vissuti in modo frammentato. Il punto di incontro Madreperla, nonostante fosse diventato non solo uno spazio frequentato dalle comunità migranti “dell’est”, (moldave, ucraine, polacche, romene...) ma anche un centro culturale per la città di Reggio Emilia, chiude definitivamente nel dicembre 2014.

LontaneVicine

Nello stesso anno una sorte simile tocca al progetto "MilanoL’viv - LontaneVicine” avviato quattro anni prima dalla Ong Soleterre come esperienza di co-sviluppo tra Italia e Ucraina dove due équipe di lavoro poste in due centri gemelli a Milano e a Leopoli lavoravano con le famiglie transnazionali sui due fronti della migrazione, quelli di arrivo e di partenza.

Il progetto ruotava attorno alla figura della donna migrante, in particolare al suo benessere individuale e alla possibilità di esercitare il proprio ruolo familiare, al contempo economico, affettivo ed educativo. Le donne accedevano al centro servizi di Milano prevalentemente per cercare supporto legale volto all’ottenimento dei documenti o alle pratiche di ricongiungimento familiare ma, grazie a un’équipe multidisciplinare e a un approccio integrato, spesso venivano poi rilevati altri bisogni di natura psico-sociale, relazionale e affettiva. Il lavoro del centro di Leopoli, invece, era caratterizzato da un intervento più diffuso sul territorio, con vari fronti aperti, quali pratiche di sostegno socio-educativo ai bambini rimasti a casa, interventi formativi con le scuole, con i caregiver sostitutivi, insegnanti ed educatori, apertura e gestione di “centri skype”, in particolar modo nelle zone rurali, cioè spazi con collegamento ad internet per le videochiamate dei bambini e ragazzi con i propri genitori all’estero.

Quest’ultimo intervento è stato al centro anche di un ulteriore progetto dal nome Te iubeşte mama (La mamma ti vuole bene) un progetto promosso da ADRI (Associazione delle donne romene in Italia) grazie al quale durante il 2011 alcune biblioteche di Bucarest e di altre zone rurali, così come alcune biblioteche comunali di Milano, sono state utilizzate come spazi per la comunicazione audiovisiva tra madri migranti e figli rimasti casa.

Poco interesse nel dibattito pubblico

Nonostante in generale quelle descritte fossero esperienze positive, poco onerose, innovative e capaci di lavorare su un piano sostanzialmente preventivo, in sinergia con gli altri servizi territoriali, i progetti in questione, soprattutto a partire dal consistente arrivo di migranti forzati che ha coinvolto l’Italia e l’Europa, non hanno più trovato spazio, finanziamenti, né particolare interesse nel dibattito pubblico.

Il punto di incontro Madreperla, racconta la coordinatrice, venne aperto anche perché si sentiva “un debito di riconoscenza” verso queste lavoratrici della cura, componenti fondamentali di un nuovo sistema di welfare privato, senza le quali i servizi di assistenza domiciliare agli anziani non reggerebbero. Oggi dovremmo riflettere non solo sul perché un tale concetto risulti sostanzialmente anacronistico, ma anche sulle ragioni che impediscono di mantenere in vita progetti di sostegno volti all’integrazione e al benessere di persone arrivate nel nostro paese in cerca di un lavoro. Così come servizi di tutela ed accompagnamento per persone che scappano dalle guerre, dai cambiamenti climatici o da vite difficili.


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