Negli ultimi anni la Russia è sempre più presente nei pensieri e nei dibattiti dell'Occidente, e così anche nella produzione culturale. Tre famose serie televisive hanno portato sul piccolo schermo il tema dell'interferenza russa nella vita politica dei paesi occidentali
L’interferenza della Russia nei processi politici delle democrazie occidentali (vera, presunta, sospetta) è diventata un tema di grande attualità nel dibattito pubblico degli ultimi anni, in particolare (ma non esclusivamente) in seguito alle consultazioni elettorali del 2016 che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca e la Brexit nel Regno Unito. Indipendentemente dalla natura nebulosa e non chiarita dei più noti casi mediatici sviluppatisi attorno al tema, lo spettro dell’interferenza russa ha fatto capolino nel dibattito legato a vari episodi della vita politica europea: Italia compresa, come ad esempio nel caso degli aiuti russi in Lombardia durante la prima fase della pandemia di Covid-19. Se è importante mantenere la consapevolezza che spesso, nel quadro delle preoccupazioni legate alle vulnerabilità dei sistemi democratici, la Russia è anche (a volte soprattutto) un simbolo più che una minaccia, è altrettanto vero che la presenza russa nei pensieri e nei discorsi dell’Occidente è essa stessa indice di un’influenza tutt’altro che irrilevante, o in altre parole di un soft power russo che spazia da fonti tradizionali e senza tempo come la musica o la letteratura classica al prestigio conferito dall’assertività diplomatica e militare della Russia sulla scena globale. In altre parole, tra l’avvenimento e l’immaginario: non è sicuramente un caso che, parallelamente alla comparsa e sviluppo dei timori legati all’ingerenza russa nella politica delle democrazie occidentali, anche nelle serie televisive siano fioriti i filoni tematici centrati sull’interferenza russa.
Ad esempio, dalla terza alla sesta stagione del thriller politico House of Cards (2015-2018) figura Viktor Petrov, ex agente KGB divenuto presidente della Federazione russa. Dalle iniziali al background, il personaggio televisivo presenta più di un'analogia con Vladimir Putin, di cui è a tutti gli effetti un alter ego, come suggerito anche dal casting con la scelta di un attore piuttosto somigliante all'attuale presidente russo. A caratterizzare principalmente il personaggio di Viktor Petrov è proprio la proverbiale assertività che ha guadagnato a Putin tanto l'ammirazione quanto l'ironia di parti del pubblico europeo: dall'inflessibilità nei negoziati alla seduzione della first lady, l'antagonista russo incarna perfettamente lo stereotipo putiniano, portandolo anzi all'estremo e sull'orlo della parodia. In un riferimento al conservatorismo sociale costruitosi come parte integrante della narrazione del potere russo contemporaneo, la serie TV dedica un arco alle leggi omofobiche anti "propaganda LGBT", raccontando l'arresto di un attivista statunitense, morto poi suicida in carcere. Petrov confiderà poi al protagonista della serie, il presidente americano Frank Underwood, di ritenere personalmente una barbarie la legge in questione, ma di averla introdotta per assecondare il suo popolo, a suo dire "conservatore e tradizionalista". Per non lasciare adito a dubbi in merito al parallelismo con Putin, Petrov viene persino contestato dalle Pussy Riot durante un cameo televisivo di queste ultime e si fa cenno dei suoi servizi fotografici a torso nudo. In sintesi la serie, più volte criticata per la rappresentazione semplicistica delle dinamiche politiche internazionali, si lascia andare ad una rappresentazione fondamentalmente caricaturale della Russia, identificata con il suo presidente in una funzione puramente antagonistica agli Stati uniti. Il contrappasso? Pare che i membri di una fabbrica russa di troll si ispirassero ad House of Cards per la creazione di fake news.
Nelle ultime due stagioni della serie di spionaggio Homeland (2018-2020) troviamo invece Yevgeny Gromov, un agente dell'intelligence russa che intreccia una complessa relazione di rivalità, collaborazione e attrazione con la protagonista, l'agente CIA Carrie Mathison. In questo arco narrativo, la serie sembra voler metabolizzare, come anche dichiarato dal team di sceneggiatori in alcune occasioni, una serie di eventi e tematiche che vanno dall'elezione di Trump all'ossessione per le "fake news". Proprio qui entra in scena Gromov, che attraverso la gestione di fabbriche di troll, l'orchestrazione di campagne social e la manipolazione di opinionisti di estrema destra riesce a causare le dimissioni della presidente americana Elizabeth Keane. In questa serie vediamo quindi la trasposizione praticamente letterale delle preoccupazioni sull'ingerenza russa mirata a compromettere le democrazie occidentali.
Di maggiore respiro e sfaccettatura la serie The Americans (2013-2018), in cui i personaggi russi, anzi sovietici, non sono pedine di un arco narrativo basato su concezioni stereotipiche, ma i protagonisti di un racconto che si configura come un vero e proprio studio storico del periodo che va dall'inizio alla fine degli anni Ottanta, dall'inizio dell'era Reagan all'alba della glasnost. Gli "americani" del titolo sono infatti due agenti del KGB, sotto copertura nei panni di una giovane coppia che sembrerebbe la perfetta incarnazione del sogno americano nei sobborghi di Washington, con due figli e un vicino di casa agente del controspionaggio FBI. Scritta da un ex agente della CIA, attraverso svariati personaggi in aggiunta ai protagonisti la serie apre diverse finestre sul mondo russo e sovietico: l'ambasciata sovietica a Washington, vari spaccati di vita quotidiana a Mosca e nelle sue istituzioni e i ricordi d'infanzia di Philip/ Miša ed Elizabeth/ Nadezhda. In questo caso, il tema dell'interferenza sovietica nella vita politica americana è al centro dell'intera produzione, ma rispetto alle due serie citate in precedenza la prospettiva è molto più sfumata e meno americano-centrica: "i russi" non sono infatti semplicemente i cattivi o gli antagonisti, ma lo status di protagonisti conferisce loro un punto di vista che rende la rappresentazione più sfaccettata ed empatica. Infatti, mostrando i personaggi impegnati a spiare, manipolare, uccidere e sedurre agli ordini del Cremlino, ma anche a gestire la quotidianità del matrimonio e del crescere i figli (loro, americani per davvero), la serie si distacca dagli stereotipi mettendo in primo piano il trauma personale e il costo umano della vita sotto copertura.
Se The Americans, pur mantenendo un framing da guerra fredda, mostra quindi come è possibile andare oltre una rappresentazione stereotipata dei russi anche in serie televisive per il grande pubblico, House of Cards e Homeland rimarranno invece vivida testimonianza di come la minaccia russa era percepita in America negli anni della presidenza Trump.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto ESVEI, co-finanziato da Open Society Institute in cooperazione con OSIFE/Open Society Foundations. La responsabilità dei contenuti di questa pubblicazione è esclusivamente di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa.
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