Il secondo Gay pride belgradese è saltato. Il governo serbo, per voce del ministro dell'Interno Ivica Dačić, ha deciso di proibire qualsiasi manifestazione. Il 2 ottobre, secondo la polizia, si sarebbe corso il rischio di gravi incidenti e i movimenti dell'estrema destra erano ben organizzati e pronti a tutto. Un commento
Il Gay pride che avrebbe dovuto svolgersi lo scorso 2 ottobre alla fine è saltato. O meglio, è stato vietato. La decisione è stata resa nota venerdì scorso dal ministro degli Affari Interni Ivica Dačić dopo essere venuto a conoscenza - come ha precisato lo stesso ministro - della concreta possibilità di scontri di massa per le strade di Belgrado.
Chi ha osservato l'espressione di Ivica Dačić in televisione ha visto un uomo esaltato, arrabbiato con Dio e con il popolo. Arrabbiato del fatto che sia toccato proprio a lui, tra tutti i suoi colleghi ministri, prendere questa decisione e informare il mondo sull’annullamento della parata. Il ministro ha urlato contro la giornalista che lo intervistava e senza fiato ha sparato mille parole al minuto, elencando le difficoltà che stiamo attraversando: la crisi economica mondiale, la disoccupazione, la corruzione fino, ovviamente, agli scontri in Kosovo. Era chiaro che il ministro fosse furente non tanto perché la parata era stata vietata, ma perché nessun altro ha avuto il coraggio di prendere tale decisione. Per cui la responsabilità è caduta su di lui e sulla polizia.
E per quanto ironica fosse la scena a cui abbiamo dovuto assistere in TV personalmente sono rimasta sollevata quando il ministro ha comunicato che il Gay pride non ci sarebbe stato. Cioè che sarebbero stati vietati tutti i raduni che erano stati annunciati a Belgrado e nelle altre città della Serbia per lo scorso weekend.
Sollevata nonostante in passato mi sia capitato di tutto, come d’altronde a tutti quelli che hanno vissuto in Serbia negli anni novanta. Sono stata ad ogni possibile e impossibile dimostrazione, scappavo alla polizia dentro gli androni dei palazzi e qua e là prendevo qualche manganellata sulla schiena. Un atteggiamento a cui non ho rinunciato nemmeno durante i bombardamenti della Nato e all’epoca la gente veniva fatta sparire in una notte. Non provavo paura, probabilmente era per folle adrenalina o forse sapevo chi avrei incontrato sulla strada. Era gente che aveva come valore la non violenza, non si pensava ad altro, persino quando gli avversari politici ci stavano di fronte.
Oggi sono più vecchia e forse anche più cauta. E le generazioni che oggi vanno per le strade non hanno nulla a che vedere con quelli che pacificamente camminavano per protestare contro Milošević. E credo che quanto detto dal ministro dell’Interno non sia privo senso. Non mi sorprenderei se la Serbia ad un tratto dovesse “esplodere”. Siamo al limite, e all’orizzonte non si vedono speranze. L’élite politica sta improvvisando, cercando di portare a casa lo status di Paese candidato all’Ue: come se questo potesse sistemare tutto. Nel frattempo si infila sotto il tappeto la crescente insoddisfazione sociale, la netta mancanza di qualsiasi progettazione, la sempre più terribile disperazione in cui ci dimeniamo.
Che Gay pride ci aspettavamo? Quando pensavo a come era stato organizzata e annunciata l’edizione dell'anno scorso - rispetto a quella di quest'anno - mi era già chiaro che non ci sarebbe stato. Nei mesi scorsi infatti non è stato fatto molto per garantirne le condizioni di riuscita. Non abbiamo fatto passi avanti dalla parata precedente, anzi, non si è parlato affatto dei diritti della popolazione LGBT e men che meno si è cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul diritto della popolazione LGBT di organizzare in modo pacifico una manifestazione.
Mentre la situazione nel nord del Kosovo a stento viene tenuta sotto controllo, sarebbe stato un miracolo che il governo serbo prendesse coraggio e decidesse di garantire le condizioni per lo svolgimento della parata, durante la quale - come percepisce la gran parte della popolazione - “gay e lesbiche offendono i nostri valori patriarcali e la sacralità della famiglia”.
La differenza fra questo e lo scorso anno è enorme. L’anno scorso le organizzazioni di destra erano “impreparate”, così gli scontri sono stati relativamente pochi al confronto con quello che era stato annunciato per il 2 ottobre 2011. I vari gruppi di estrema destra hanno avuto abbastanza tempo per organizzarsi. Secondo i dati resi noti dalla polizia, e considerando che crediamo alla metà di quello che hanno detto, Belgrado e la Serbia sarebbero potute precipitare facilmente in un caos dalle enormi conseguenze.
Lo stesso giorno tra l'altro era stata fissata una cosiddetta “Passeggiata della famiglia” ma va detto che le organizzazioni di destra avevano preparato un piano molto più pericoloso. Il ministro Dačić ha comunicato che erano già state ordinate mazze da baseball, catene, petardi, biglie da tirare con le fionde, che dalla distanza di due metri hanno la forza di una pallottola, preservativi e sacchetti pieni di vernice, esplosivi in scatole di plastica, oltre ad aver pianificato incidenti in altre città e assalti alle sedi dei partiti politici. Come se non bastasse, era stato pianificato il sequestro dell’autobus con cui i manifestanti sarebbero dovuti arrivare fino al centro di Belgrado. L’idea era di “provocare” degli scontri in tutta la città, dai quartieri periferici fino al centro, per attirare la polizia in più luoghi e renderla così incapace di difendere i partecipanti della parata. Dačić ha aggiunto che il piano aveva una “connotazione politica” con l’obiettivo di sovvertire l’ordine costituito.
Un’altra differenza rispetto all'anno scorso sta nel fatto che allora il presidente Tadić aveva ricevuto gli organizzatori della parata e aveva appoggiato la manifestazione e la gran parte della coalizione di governo, in verità controvoglia, aveva fatto lo stesso. Quest’anno il presidente ha avuto preoccupazioni più importanti, di nome Kosovo. Seguendo il suo esempio, nessun partito, tranne il Partito liberale democratico (LDP) e la Lega socialdemocratica della Vojvodina (LSV), ha appoggiato l’iniziativa.
Gli oppositori della parata, tra questi ad esempio Dragan Marković Palma, del partito Serbia unita (JS), nemmeno quest’anno purtroppo si sono tirati indietro dall'offendere violentemente i rappresentati della popolazione LGBT. Non si è tirata indietro nemmeno la santa chiesa, tanto che il patriarca, con i suoi vescovi, ha definito il Gay pride come la Parata della vergogna.
Credo che nemmeno gli organizzatori siano rimasti sorpresi dalla decisione si sospendere la manifestazione. Probabilmente nemmeno troppo delusi, consapevoli della società in cui vivono e del debole sostegno ricevuto persino dal settore della società civile.
Ecco perché da Belgrado non posso raccontare il secondo Gay pride serbo. Sabato scorso, al posto della parata, una trentina di rappresentanti delle organizzazioni LGBT hanno bloccato il traffico del centro di Belgrado per un breve periodo, sventolando striscioni con scritto “Amore. Normale”, gridando “L’amore è un diritto umano”. Alla conferenza stampa gli organizzatori del pride hanno dichiarato che non è più una questione di difesa della popolazione LGBT, aggiungendo “noi siamo certamente il margine del margine”, ma è ormai tempo di capire che la vera domanda è: chi sarà il prossimo.
Che la sospensione della parata sia stata una mossa intelligente per la sicurezza è fuori di dubbio. Quello che non è chiaro, come ha sottolineato il Partito liberale democratico in un comunicato, è il fatto che lo Stato non sappia affrontare degli hooligan che da mesi stavano pensando a come minacciare delle vite umane e la sicurezza del Paese.
Alla fine, il riassunto più illustrativo di tutta questa storia, lo ha fornito Nenad Čanak, il controverso leader della Lega dei socialdemocratici della Vojvodina, ritenuto un politico senza peli sulla lingua. “Cos’altro deve accadere per farci capire che il fascismo sta entrando dalla porta principale nelle nostre vite e che è solo una questione di giorni quando picchiatori e assassini inizieranno a bussare alle porte di tutti quelli che gli si opporranno? Questo non c’entra né con i diritti costituzionali di manifestare né con la lotta politica parlamentare. Questo è terrore che fra poco, se non gli si mette fine, inizierà di nuovo a portare via vite umane in numero sempre crescente”.
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