Uno sguardo autentico ed originale su Roma e l'Italia, ma mai tradotto in italiano: è "Dagli iperborei" di Miloš Crnjanski, sospeso tra le ombre oscure della vigilia della Seconda guerra mondiale e un "nord" mitico e tormentato
Non ho alcuna intenzione di iniziare questo articolo polemizzando sui motivi per cui uno dei romanzi che offrono uno sguardo autentico e originale su Roma e sull’Italia attraverso i secoli non è mai stato tradotto in italiano. Né tanto meno ho intenzione di citare anche solo le iniziali degli editori italiani con cui ho avuto uno scambio epistolare sull’argomento.
(Se lo facessi, il racconto, pur sempre documentario, avrebbe il sottotitolo: “Una farsa sottoculturale contemporanea”.)
Dirò soltanto che in mezzo a questa (in)sopportabile frivolezza dei preparativi per le vacanze estive in cui siamo immersi – tanto che sembra che nell’est del Vecchio continente, anziché il rischio di un cataclisma bellico mondiale, stiano crescendo placidi campi di grano sorvolati da colombe della pace – torno a due libri: Il mondo di ieri di Stefan Zweig e Kod Hiperborejaca [Dagli Iperborei] di Miloš Crnjanski. Li rileggo invano, ne scrivo – per me stesso e per gli altri – invano. Proprio come quando, alla vigilia delle guerre jugoslave, vagando tra altri libri, sul mio taccuino annotai qualcosa su Thomas Mann. Quel qualcosa era la sua convinzione: se Tolstoj fosse vissuto più a lungo, non ci sarebbe stata la Grande guerra. Ma a cosa servono questi ricordi se tutto si dimentica e si ripete?
“Dagli Iperborei? Vecchio, evidentemente hai troppo tempo libero!”, mi ha detto recentemente un mio ex compagno di scuola, alludendo alle 650 pagine del romanzo di Crnjanski. Certo, ho pensato, la scrittura di Zweig è più confortante per chi valuta un libro principalmente in base al numero di pagine. Ma non l’ho detto al mio amico. Ad ogni modo – ho pensato, sempre tra me e me – non ho né un orologio né un metro per le opere d’arte, e quindi nemmeno per i romanzi.
Mi limito a qualche semplice osservazione sul libro di Crnjanski (originariamente pubblicato nel 1966), anche se ogni tentativo di presentare brevemente un romanzo – in cui si intrecciano aspetti culturali, filosofici, politici, autobiografici e poetici – è di per sé rischioso. Spendo subito due parole sul titolo.
Nella mitologia greca, gli Iperborei sono un popolo che vive nell’estremo nord d’Europa, in una regione placida e prospera, irraggiungibile sia dal mare che dalla terraferma. L'idea di Iperborea è una nave poetica sotto la cui “bandiera” nel 1937 Crnjanski naviga verso Jan Mayen, le Isole Svalbard e l’Islanda. Si occupa del Nord al rientro a Roma, come membro del corpo diplomatico del Regno dei serbi, croati e sloveni. Lo fa con la stessa ossessione poetica che, qualche anno prima, lo aveva spinto ad occuparsi della Toscana, cercando quei legami segreti che permeano il mondo intero. Da Stražilovo e alla lontana, e mai conosciuta, Sumatra. Tutti questi topos altro non sono che sinonimi di Consolazione per chi ha compreso le parole di Omero che, molto prima della Grande guerra, diceva che gli esseri umani sono come le foglie.
(Non vi è nulla di casuale nel legame tra Omero e Ungaretti: il poeta italiano ha assistito di persona a scene che noi vediamo solo sugli schermi televisivi.)
Crnjanski ha una fissazione anche per Michelangelo. È immerso nella sua cupola anche quando non la vede trascorrendo le giornate nei salotti mondani. Salotti dove nascono quelle lunghe conversazioni da cui lo scrittore trae maggiormente ispirazione per il suo libro sugli Iperborei. Sviluppando il suo ciclo narrativo e poetico, Crnjanski aggiunge un altro sinonimo di consolazione: Nord. Un termine che abbraccia tutto quello che lo scrittore, qualche anno prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, ha visto in quelle terre del silenzio sconfinato, dove ha anche sentito dire che a rovinare tutto è l’uomo. Sempre e ovunque.
Centinaia di dettagli visti al Nord lo perseguitano, insieme a una moltitudine di presentimenti cupi. “A Skagen, partendo dall’albergo, ho camminato lungo la costa fino al punto in cui la sabbia si immerge nel mare. Sulla sabbia mi sono imbattuto in un’ala spezzata di un gabbiano. La volevo fotografare, non so perché, e con essa, involontariamente, ho ripreso anche la mia ombra sulla sabbia. Un avvertimento…”.
Lo scrittore intuisce che la guerra sta per travolgere anche il territorio italiano e, con cautela e delicatezza, cerca di rivelare questo presagio ai suoi interlocutori. Descrive così il proprio stato d'animo: “Quando piove, le sere a Roma si tingono di blu e di giallo degli iris, e il cielo, in quei giorni, è primaverile, talvolta simile a quello boreale, come nel Nord estremo. Quella sera l’ho intuito, sarebbe stato il mio ultimo anno a Roma. Roma ha iniziato a farsi oscura, un oscuramento totale, di notte, ed era fantastico. Da secoli ormai nessuno ha visto una Roma così, senza alcuna illuminazione, immersa nel buio. Non la poteva vedere”.
Crnjanski, insieme agli altri membri della sua piccola compagnia, giunge a ipotesi sconfortanti sulla guerra. È come se un gruppo di amici, intrappolati a Roma allo scoppio della Seconda guerra mondiale, seguisse il filo di un pensiero tratto dai vecchi libri di latino: Bella vicos et oppida delent. Sbrigati per vedere quante più città possibile prima dell’imminente distruzione.
Ho detto abbastanza?
Ora lascio la parola a Crnjanski, così scoprirete di quali città si tratta.
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Miloš Crnjanski: Virgilio presso gli Sciiti
Tratto da Kod Hiperborejaca, Beograd 1993.
Pubblicato 2011 - Lettera internazionaleP. 32-33
Il ventotto maggio (1940), verso sera, una signora di Albano, moglie di un mio amico, un giornalista americano, mi telefona. Dice: è finita.
La guerra è alle porte. È solo questione di giorni.
Che vada a casa sua, dopo cena, per bere qualcosa e parlare un po’. Ci sarà la nostra solita compagnia.
Vado, quindi, un’altra volta in quella casa, in una via abitata un tempo da pittori provenienti da paesi nordici, e che oggi è una strada di robivecchi e di autorimesse. Siamo nuovamente seduti sulla terrazza del mio amico, sul tetto. Il Pincio, con le sue ripide pareti, sovrasta le nostre teste. La cameriera della padrona di casa, una contadina originaria dei monti della Sabina, gira fra noi e ci distribuisce il ghiaccio, nei bicchieri.
Il mio amico si è fatto pallido. È un Italiano – ma americano. Non sarà facile per lui, in guerra. Due ufficiali, ospiti frequenti di quella casa, sono taciturni. Nei circoli giornalistici si dice che i Francesi, in questi giorni, sommergeranno, di bombe, Roma. Forse verranno anche i bombardieri inglesi. Bruceremo, come è bruciata Rotterdam, come è bruciata Varsavia.
Gli ufficiali ci rassicurano, dicono che la cosa non è ancora sicura. Nessuno appiccherà volentieri fuoco a Roma.
[…]
L’ufficiale più anziano, di umili origini, un alpino, in licenza, mi chiede: mi dispiacerà, fra breve, andarmene via dall’Italia, che, dicono, ho amato tanto? Così come l’ho vista, non la vedremo più, mai più. Era bello. Quando l’ho vista per la prima volta?
Io allora racconto come l’ho vista, per caso, ventotto anni fa, ed ero venuto a Venezia, dove il mare è tanto verde, e la città, come un sogno.
[…]
La figlia del capo di governo dice che le pare che tutti noi, dividendoci in cattolici, marxisti, slavi, fascisti, siamo pazzi! In guerra gli stati si scambiano le posizioni, in Europa, come in una quadriglia. I Portoghesi, nella scorsa guerra, hanno combattuto contro i Tedeschi, e hanno perso due divisioni, che i Tedeschi hanno falciato via, come fossero bambini. Adesso combattono a fianco della Germania. L’Italia, per secoli, ha considerato i Tedeschi dei barbari, e adesso li adora. Adorava la Francia, adesso entrerà in guerra contro di essa. Chissà da che parte saremo, nella prossima guerra, quando questa passerà. Noi siamo pazzi! Lei non lo capisce. E per quanto riguarda Venezia, a Venezia l’ha particolarmente divertita la gondola. Ci è stata durante il viaggio di nozze. Le cose che devono vedere i gondolieri! E, la cosa più bella, in gondola le coppie sono trasportate come in una nera cassa mortuaria.
Io dico che amo la gondola, perché assomiglia alle imbarcazioni preistoriche, perché ha qualcosa di polinesiano. Come i cavallucci marini, nell’acquario. Lo scorso inverno sono stato, con mia moglie, a Venezia. Abbiamo visto le gondole coperte di neve sotto le finestre dell’hotel Danieli. Non credo che le vedrò, così, mai più.
[…]
L’ufficiale più anziano, l’unico che tace, mentre tutti gli altri gridano, propone che si interroghi per primo il padrone di casa, su dove vogliamo andare. Non so perché, il nostro ospite ci guarda con tristezza, e dice che siamo tutti incontentabili nei nostri desideri, perché non siamo religiosi. Lui desidera, prima di tutto, che si vada a Genova. E non è né la sua città natale, né ci è mai andato all’Opera, ma quel porto è l’unico luogo che gli è più caro in Italia. Ama vedere il cielo da Genova. Ama vedere il mare da Genova. Più di tutto ama i grandi transatlantici italiani. Gli piacerebbe morire ed essere sepolto a Genova – quando invecchierà.
[…]
Intanto, quella sera, tutti continuano a gridare dove vorrebbero andare, per una volta ancora, in Italia. Padova, dice la padrona di casa. Padova, dico anch’io. Pavia, dice l’ufficiale più anziano. Pavia, dico anch’io. Davanti ai miei occhi si stende giallo un fiume e sopra un ponte, un vecchio ponte. Sotto di esso le donne lavano i panni nell’acqua. A Padova insegnava fisica Galileo. In un banco sedeva anche un re svedese.
Tutti, così, ripetiamo qualcosa su ogni città italiana. Bergamo, grida il piccolo tenente, come a una lotteria. Gli Italiani, dice, sconfissero i Francesi, presso Pavia, tanto che presero prigioniero anche il loro re. Che cosa hanno da dire su questo gli stranieri? Dicono che quel signore, allora, scrisse una lettera a sua madre: tutto è perduto, fuorché l’onore. Gli Italiani gli hanno tolto i pantaloni, e lui parla dell’onore e rimane vivo. Tutti gli stranieri ripetono questo, come pappagalli. Questa volta i signori francesi non avranno il tempo di bombardare Roma. Oggi è capitolato il Belgio. Fra poco lo farà anche la Francia.
L’ufficiale più anziano, a cui non piacciono le rodomontate del suo più giovane compagno, chiede se ci sia qualcosa, oltre ai violini, da vedere a Cremona. Sono mai stato a Cremona? C’è qualcosa da ascoltare, dico, a Cremona. Là è nato un grande Italiano, che si chiamava Monteverdi. Per la prima volta l’ho ascoltato, da giovane, a Parigi. Poi, con la mia giovane moglie, a Firenze. Lo hanno suonato in modo eccezionale, e non solo per me, ma per tutti, a Stoccolma. E anche a Roma, con la signora Marta, la padrona di casa, siamo andati ad ascoltarlo, a Santa Cecilia.
La padrona di casa dice con tristezza: non sentiremo più Monteverdi a Roma. C’è la guerra. Ci guarda. Si chiede: dove saremo tutti fra un anno o due?
[…]
Per i Greci, gli Iperborei erano degli esseri prodigiosi, ma umani, che vivevano in un paese singolare, al di là del ghiaccio artico.
Sotto un Sole eterno!
Nell’eterna gioia!
Nell’eterna felicità!
La figlia del capo di governo, di quel piccolo paese balcanico, dice, a questo proposito, che si tratta di parole vuote, follie, sogni, sciocchezze, invenzioni!
Che tutto ciò non esiste!
Neppure l’ufficiale più giovane, più piccolo, crede che Virgilio potesse sapere qualcosa, degli Iperborei, ossia delle terre polari. Voleva semplicemente adulare Augusto e incantarlo con quelle frasi.
Io allora dico che il poeta, dice, esplicitamente, che esiste quel legame fra popoli e paesi. Mentre in Italia sorge l’alba - dice il poeta – là inizia a risplendere la stella vespertina! Il vento, dice, ci porta la bufera, dalla Scizia!
La bufera scitica, dice, esplicitamente! Nubi secche, dalle quali non c’è pioggia. Tutto, dice Virgilio, giunge a noi da quelle terre del nord, dagli Iperborei!
[…]
Dall’ambasciata mi avvisano che il nostro ministro è stato richiamato, per l’indomani, al ministero. Devo andare in ufficio, il mattino presto.
Abbasso allora il ricevitore e mi chiedo: è la guerra?
Ritorno, poi, in compagnia, e mi scuso. Domani non potrò venire. Loro possono iniziare il giro di Roma, domani, ma senza di me. Domani non posso.
Perché? Perché?
Questo non posso dirlo. Neppure se lo volessi.
(Traduzione dal serbo di Alice Parmeggiani)
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