Il preoccupante stato di salute dei media serbi. Intervista a tutto tondo con Slaviša Lekić, presidente dell’Associazione dei giornalisti indipendenti della Serbia (NUNS)
Slaviša Lekić non è uno che le manda a dire. Presidente dell’Associazione dei Giornalisti Indipendenti della Serbia (NUNS) dal 2017, da anni si batte per il diritto alla libertà di espressione. Un diritto che, nonostante il processo di integrazione europea intrapreso dalla Serbia ed i tentativi di allineamento ai canoni comunitari, sembra essere sempre meno scontato, e sempre più in balia dell’autocrazia di Aleksandar Vučić, Presidente della Repubblica e leader del Partito Progressista Serbo (SNS).
Lekić, oltre ad essere il Presidente di NUNS, è editorialista del quotidiano serbo Danas, fondatore del magazine Status e autore di numerosi libri tra cui “Svaka čast Vučić” (Complimenti Vučić) biografia politica del leader SNS. Il suo nome è inoltre legato ai progetti televisivi "Abuse of Political Influence: Political Parties as the Biggest Employers in Serbia", "LAZAR", "Media in Serbia: Chronicle of Decline", "Fall of the Hague Refugees", "Zoran Djindjic: HIPOTEKA" and "How did the people happen".
Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo nuovo film-documentario “Silom na sedmu ” (La violenza al massimo grado, produzione NUNS), un lavoro volto a far luce sulla situazione che i giornalisti, soprattutto quelli critici nei confronti del governo, stanno sperimentando sulla propria pelle tra minacce di morte, pressioni finanziarie e un’impunità latente che mina alle fondamenta il diritto di espressione.
Come dichiarato dalla Commissione europea in un report del 2017, la condizione della libertà di espressione in Serbia è deteriorata drasticamente...
Quando i giornalisti dell’emittente televisiva tedesca ZDF mi hanno chiesto di spiegare, nel modo più breve possibile, quale fosse la condizione dei media in Serbia, la mia risposta è stata molto semplice: “Divertente come un’autopsia”.
È la prima volta che ben cinque organizzazioni del settore, tra cui Reporters Senza Frontiere e Human Rights Watch, si trovano unanimi nel definire la situazione della libertà di stampa in Serbia catastrofica. Nemmeno negli anni ’90 si era arrivati a tanto; e anche la Commissione europea, che fino a questo momento si era sempre trattenuta dal denunciare apertamente le pressioni sui media, si è finalmente schierata in modo netto.
L’incremento delle pressioni e delle minacce nei confronti dei media e dei giornalisti coincide con l’ascesa al potere di Aleksandar Vučić: nei primi quattro anni del suo governo, infatti, la stretta sui media è stata spudoratamente aggressiva, con un conseguente peggioramento della situazione.
Qualche numero: nel corso del 2013 gli attacchi registrati sono stati 23, mentre nel 2017 il numero è salito a 96, ovvero più del quadruplo. E solo nel primo trimestre di quest’anno, le intimidazioni sono state 29. Con il passare del tempo, però, le pressioni si sono fatte più subdole: sabotaggi politici e strette economiche nei confronti dei media non allineati alle posizioni dell’SNS, pressioni sugli inserzionisti, fondi pubblici distribuiti faziosamente e, non ultimo per importanza, le minacce perpetrate attraverso i social media.
La pratica intimidatoria più in voga è diventata quella dell’accanimento amministrativo, vale a dire frequenti ispezioni e controlli nei confronti dei media indipendenti. Il motivo di queste “visite”, infatti, non è semplicemente quello di verificare se l’amministrazione presenti delle irregolarità, ma quello di far chiudere la testata. La legislazione serba è talmente intricata, come riferiscono gli esperti in materia, che si può sempre trovare il modo per chiudere un’azienda. E questo governo sta sfruttando tale possibilità al massimo.
Se guardiamo infine al contesto del Cofinanziamento per progetti di pubblico interesse, una delle misure derivanti dalla prima Strategia per i media, i media allineati al governo ottengono facilmente fondi e posti nelle commissioni, mentre quelli non in linea rimangono senza un soldo. Se queste sono le condizioni, praticare la professione giornalistica in modo indipendente diventa impossibile.
Come si potrebbe spiegare questo deficit, nel contesto dell’integrazione europea?
Si può dire che l’Unione europea sia in parte responsabile di quello che sta accadendo. È opinione diffusa che, al fine di promuovere questo processo, a Vučić sia stata data carta bianca. Secondo alcuni, Vučić avrebbe espressamente richiesto di sfruttare i media sia per tenere a bada i Radicali, sia per silenziare i suoi oppositori politici. Poiché, in definitiva, questo sarebbe stato uno dei modi più semplici per evitare problemi lungo il percorso.
Queste, purtroppo, non sono solo voci di corridoio, perché nella sua scalata verso l’Unione europea o, per essere più precisi, nella sua ascesa verso il potere assoluto, la prima cosa fatta da Vučić è stata quella di assoggettare i media.
Il problema è diventato lampante proprio quando si sono iniziate a implementare le misure adottate nell’ambito dell’integrazione comunitaria: nonostante la prima Media Strategy del 2011 e le relative leggi fossero in armonia con gli standard e i regolamenti europei, ben presto si è rivelato il paradosso in cui lo stato, l’istituzione che sulla carta le aveva promosse, ha iniziato a violarle per primo.
La riforma dei media è collassata su se stessa, fin dall’inizio.
La privatizzazione dei media, “conclusasi” ufficialmente nel 2015, non solo appare incompleta, ma sembra inoltre aver dato vita a nuove forme di influenza politica. Si può affermare che stia avvenendo una ri-nazionalizzazione dei media?
In Serbia, come in altre “repubbliche delle banane”, la situazione è tale che la famiglia di Bratislav Gašić, ex ministro della Difesa e Capo dell’Agenzia per la Sicurezza (BIA), non solo possiede televisioni e portali online, ma esercita la propria influenza anche su due associazioni di giornalisti, tra cui la DNN, l’Associazione dei Giornalisti di Niš.
Il punto è che il Segretario Generale di quest’associazione, Danijela Ivanković, è anche caporedattrice di TV Zona Plus, il cui proprietario, guarda caso, è Vladan Gašić, figlio di Bratislav.
Come se non bastasse, l’Associazione dei Giornalisti di Niš vanta ben 3 membri nella Commissione per la Distribuzione dei Fondi Pubblici. Teniamo ben presente che di questa Commissione, a NUNS sono andati solo due seggi, mentre all’Associazione dei Media, che rappresenta tutta l’industria editoriale in Serbia, ne è andato solo uno. Morale della favola: Serbia Centrale e Vojvodina hanno solo 8 rappresentanti nella Commissione, mentre due Associazioni di Niš ne vantano ben 7.
Un altro caso è quello dell’associazione fantasma di Vranje PROUNS, il cui presidente, Zoran Veličković, è diventato anche il socio di maggioranza dell’emittente radio-televisiva Vranje (RTV), acquistando il 60% delle quote. Nel secondo round del bando per la corsa ai finanziamenti pubblici, non solo si è assicurato il doppio dei fondi rispetto l’anno precedente, ma è inoltre riuscito ad acquistare la Tv Bujanovac per la bellezza di un dinaro serbo (0,0008 Euro). Ed è solo il secondo anno che partecipa a questi bandi per ricevere fondi dallo Stato.
Per concludere in bellezza, la maggior parte dei portali della Vojvodina sono stati comprati da Dušan Stupar, ex Direttore Generale della Pubblica Sicurezza di Belgrado e uno dei più grandi finanziatori del Partito Progressista Serbo di Vučić.
Il RAEM (Autorità di regolazione per i media elettronici) può essere definito politicizzato? Perché?
Possiamo dire che il RAEM sia ormai diventato un’istituzione para-statale. Sarebbe dovuto nascere come un organo indipendente volto a regolare la sfera dei media elettronici, ma in realtà è stato politicizzato sin dal principio.
Sintomatico il caso delle ultime elezioni presidenziali, in cui la parzialità con cui sono stati presentati i candidati ha fatto sì che fossero gli stessi cittadini a sporgere denuncia. Invece di mettersi in moto sulla base di queste denunce, il RAEM le ha semplicemente inoltrate alle emittenti televisive per un commento, evitando però di sanzionare le irregolarità.
Una delle costanti, in questa relazione tra lo Stato e i media, è che ormai non ci si preoccupa nemmeno più di insabbiare il reato. Si è così sicuri di non poter essere toccati, che ci si permette di agire alla luce del sole.
La sicurezza dei giornalisti rimane quindi una faccenda seria. Lei e la sua famiglia avete recentemente subito delle minaccie…
Il caso delle minacce di morte nei confronti di mio padre, a causa della mia attività giornalistica, è la prova che lo Stato, se ne ha la volontà, ha tutti i mezzi per risolvere incidenti di questo tipo.
Dopo la prima telefonata intimidatoria, ho contattato immediatamente il Consigliere per i Media del Presidente della Repubblica, per informarla di quanto accaduto. Il Presidente ha chiamato il ministro dell’Interno, il ministro dell’Interno ha chiamato il Capo del Dipartimento per i Crimini e questo ha richiamato me. Tutto questo nel giro di due ore. E una settimana dopo la prima intimidazione, il responsabile della stessa è stato arrestato e messo in custodia cautelare.
Questo caso non è interessante perché coinvolge me e la mia famiglia, ma per il fatto che il telefono dal quale queste minacce sono state perpetrate era una cabina telefonica; non un telefono che si può seguire e rintracciare. Questa persona non si è presentata a casa di mio padre suonando il campanello, e mio padre non ha avuto la possibilità di guardarlo negli occhi per riconoscerlo. Nonostante questi impedimenti, la polizia ha comunque trovato il modo di arrestare l’individuo. E l’ha fatto in fretta.
Ma se la volontà non c’è, è normale che la situazione rimanga insostenibile: alcuni giornalisti in particolare, tra i quali i nostri poveri colleghi dell’Associazione dei Giornalisti Indipendenti della Vojvodina, Nedim Sejdinović e Dinko Gruhonjić, subiscono quotidianamente minacce e violenze di vario genere, e nessuno sembra preoccuparsene. Credo che il solo Nedim abbia ricevuto 46 minacce nell’ultimo anno: nessuna di queste è stata investigata.
Sintomatico è poi quello che è accaduto a Predrag Blagojević, caporedattore di Južne Vesti: Blagojević è infatti riuscito a scattare una foto alla macchina di un individuo che lo stava seguendo e filmando. Due degli otto caratteri della targa erano però difficili da distinguere e, dopo oltre un anno di “indagini”, la polizia non è ancora riuscita a risalire al veicolo. Una cosa ridicola, poiché, solo basandosi sulla tipologia di macchina e sulle sei cifre identificate, sarebbe stato possibile risalire al veicolo nell’arco di una giornata al massimo.
Per quel che riguarda invece il caso dei sei giornalisti aggrediti durante l’insediamento di Vučić alla presidenza, tutto è molto chiaro fin dall’inizio: il 31 maggio 2017, nel corso della cerimonia, i giornalisti sono stati assaliti fisicamente e trascinati via con la forza. Quando le foto dell’incidente sono state pubblicate su Danas, Vučić ha dichiarato sarcasticamente in televisione: “Sono proprio curioso di vedere contro chi verranno scagliate queste accuse”.
Nonostante le varie azioni di protesta promosse dalle associazioni indipendenti di categoria, le denunce presentate dai giornalisti sono state definitivamente rigettate dal Pubblico Ministero chiudendo per sempre ogni possibilità di indagine.
Questo è l’ambiente ostile di cui parlavamo prima. Dopo questi eventi, nessun giornalista ha più avuto il coraggio di fare dichiarazioni pubbliche sull’accaduto, il che rivela il sintomo più importante: l’autocensura. La più grande paura qui è la paura stessa, non il timore di non essere più pagati. I giornalisti hanno smesso di chiedere, di fare domande, perché in Serbia non si ha più il diritto di proteggere se stessi. Questa è la cosa più triste.
Potrebbe commentare le recenti pressioni su Južne Vesti, Kikindske e altri media locali? Sembra che stiano avendo luogo nuovi casi di accanimento amministrativo, soprattutto nei confronti degli inserzionisti. Potrebbe esserci qualche analogia con la chiusura di Vranjske?
Tra questi casi, ci sono importanti analogie e altrettanto importanti differenze. La cosa fondamentale che tutti rivelano, però, è quanto sia facile esercitare pressioni a livello locale. È più difficile che queste situazioni accadano a Belgrado: qui c’è molta più solidarietà e capacità di risposta, mentre nella parte più provinciale della Serbia è davvero facile mettere le mani sui media. Quello che però mi affascina, è come questo governo diventi ogni volta più scaltro e innovativo nel farlo.
Il caso di Vranjske ha dell’incredibile: il settimanale ha, infatti, subito costanti e ingiustificate pressioni economico-finanziarie volte a impedirne l’accesso ai fondi pubblici, diritto sancito dalla legge sul Co-finanziamento.
Ciò che rende evidente l’accanimento amministrativo, è il fatto che tre mesi dopo il primo controllo, l’Ispettorato delle Tasse ha ordinato un’ulteriore ispezione per indagare lo stesso lasso di tempo. Il risultato? Tutte le tasse erano state pagate, ma ormai Vranjske era stato chiuso per sempre, dopo 23 anni di rispettata attività.
Nel caso di Južne Vesti, invece, l’Ispettorato non si è “limitato” a un controllo finanziario, ma è andato direttamente a far visita agli inserzionisti del giornale, minacciando la stessa sorte per chi avesse continuato l’attività inserzionistica.
Vladan Vukosavljević, il ministro della Cultura e dell’Informazione, ha recentemente negato il declino della libertà di espressione in Serbia, come invece hanno riportato tutti gli Istituti e le Organizzazioni del settore. Ha inoltre aggiunto che non è da escludere la possibilità che questi report siano il frutto di influenza politica. Come commenta questa affermazione?
Credo che Vukosavljević sia il peggior ministro della Cultura e dell’Informazione avuto dall’inizio della transizione democratica. Ci sono stati svariati cretini a ricoprire questa carica nel corso degli anni - citami pure letteralmente - ma non c’è mai stato un caso di un ministro che, così palesemente, non capisca un accidenti di media come Vukosavljević. Persino Velimir Ilić, il sindaco di Čačak che aggredì un giornalista in diretta televisiva, aveva un rapporto migliore con i media; almeno ne capiva l’essenza e la natura e, soprattutto, sapeva come reprimerli. Questo qui, invece, non è in grado di fare nemmeno questo: la sua ignoranza in materia è così oceanica, che a riguardo può essere paragonato solo al nostro Primo Ministro Ana Brnabić.
Vukosavljević è nient’altro che un businessman nell’ambito della cultura. Il suo lavoro non ha niente a che vedere con i media, e questo può essere facilmente dedotto dalle sue stesse dichiarazioni: asserire, infatti, che i report di attori quali Amnesty International o la Commissione europea siano politicamente influenzati, è ridicolo. Anche al più incompetente dei politici non è concessa un’affermazione del genere. Ma qui in Serbia, purtroppo, questo tipo di dichiarazioni vengono fatte su base quotidiana.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
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