Sono giovani e sono scesi in piazza a protestare. Contro quella che ritengono un'ingiustizia, fatta a loro, fatta alla Serbia. Le nuove generazioni ed il mito del Kosovo in quest'editoriale di Danijela Nenadić
Di Danijela Nenadić, 5 marzo 2008, Politika, (titolo orig.: «Нови косовски мит»)
Traduzione a cura della redazione di Osservatorio sui Balcani
I giovani manifestano ancora e si ribellano. Questa volta il motivo del loro impegno è la protesta contro la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo e la storica ingiustizia che è stata commessa nei confronti della Serbia.
Alla ribellione di questa generazione è già stato dato il nome derisorio di "Kosovo per le scarpe da ginnastica". L'immagine delle due ragazze è diventata sinonimo di ciò che accade per le vie di Belgrado. Per chi vuole ascoltare, è chiaro che le due ragazze - ma probabilmente anche la maggior parte dei loro coetanei - sono andate alla manifestazione perché insoddisfatte e frustrate; perché sentono di essere ai margini e di essere trascurate. Non rubiamo perché abbiamo, ma perché non abbiamo niente. Dove sono quelli che hanno, perché non sono venuti a rubare? Le parole di una delle ragazze suonano come un campanello d'allarme della società in cui viviamo.
K. Lorenz afferma che la manipolazione delle persone fa parte degli otto peccati capitali, mentre Orwell aggiunge che il potere è fatto in modo che lo spirito umano si frantumi, per poi far sì che si ricrei nella forma desiderata.
La ribellione dei giovani è autentica, ma anche costruita. Sono convinta che sentano emotivamente la perdita del Kosovo, nonostante in Kosovo non ci siano mai stati. E che perciò si sentono male e sentono che alla Serbia, e pertanto anche a loro, è stata commessa un'ingiustizia.
Hanno accumulato rabbia e insoddisfazione, la storia sull'Unione europea è loro distante, non hanno soldi per viaggiare, il regime dei visti rende loro difficile muoversi. Il Kosovo è lì, onnipresente, in ogni libro di scuola, sui giornali, su tutti i canali televisivi, nei discorsi a tavola con la famiglia, negli auguri natalizi via SMS. I giovani, come tutti noi, sono prigionieri del "nuovo mito del Kosovo" che è sorto negli ultimi anni, e per il quale, si direbbe, ha responsabilità esclusiva la nostra élite politica.
Qualcuno ci ha preparato per la dichiarazione unilaterale di indipendenza o per un qualsivoglia altro scenario sfavorevole? Di tutto ciò i cittadini della Serbia non sapevano un bel niente eccetto il piccolo numero di coloro che di queste e simili questioni si occupano professionalmente; di questo non si è parlato, questa battaglia non si poteva perdere. Ma lo stato si è chiesto come i cittadini si sarebbero ripresi da uno shock di tali dimensioni?
Temo che non ci siano risposte. Il piano di azione i cui dettagli ancora non conosciamo, e sembra proprio che non li sapremo affatto, ha predisposto le attività dello stato a favore della difesa della sovranità e dell'integrità territoriale. Ma sembra che nessuno abbia pensato a lavorare ad una strategia per lo sviluppo futuro del paese.
Cosa succederà quando passerà il primo shock? Cosa faremo con le generazioni di giovani che vivono con il sentimento che gli sia stata fatta un'ingiustizia e le cui prese di posizione sono plasmate soprattutto dalle emozioni? Come riusciremo a costruire una società in cui loro saranno in grado di realizzarsi? Se non faremo questo, avremo una società che è un coacervo di individui frustrati che non sono all'altezza di raggiungere un avanzamento. Gireremo nel circolo vizioso delle vittime dal quale, se non ci sarà una sistematica risposta dello stato, non c'è una rapida via d'uscita.
Se "il ministro che meglio di tutti conosce la gente" da mesi ormai attacca una televisione, c'è da stupirsi che i giovani dimostranti corrano ad attaccare quel "covo di nemici"? Anche se il giorno dopo, molto probabilmente, sulla stessa televisione guarderanno la Coppa dei campioni o il "Grande fratello". Se il caporedattore di un settimanale con entusiasmo dice che in Serbia è finalmente cresciuta una generazione che non è apolitica, anazionale, che non è interessata solo ai visti Schengen, alla polvere dell'Afghanistan, ai televisori al plasma provenienti da Hong Kong, c'è qualcosa di strano allora se i giovani sostengono tali stereotipi e vivono l'Europa come la culla di tutti mali? Se per i tumulti per le vie di Belgrado e delle altre città della Serbia molti ministri, editorialisti e altri hanno parole di comprensione, e a volte persino di elogio, come possiamo aspettarci che questo tipo di comportamento non si ripeta in futuro? Se un tale "responsabile personaggio" dichiara di comprendere, benché non giustificare, gli attacchi alle panetterie di proprietà degli albanesi o dei gorani che vivono qui da decenni e non hanno minimamente contribuito alla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, significa che si sta dando un tacito assenso a far sì che tali attività proseguano finché non finisce lo "stato di shock"?
Qui non c'è niente da capire. Né da giustificare. La violenza genera violenza. Sul breve periodo la manifestazione dei sentimenti nazionali dei giovani espressi con comportamenti aggressivi può solo condurre al sostegno di alcune opzioni politiche. Sul lungo periodo, distruggerà loro stessi e la società nel suo complesso. Per questo credo che i politici e tutti gli altri dovrebbero preoccuparsi di trovare il modo di articolare la rabbia e l'insoddisfazione dei giovani; di non sottovalutare la possibilità di un'esplosione sociale e di trovare una soluzione per canalizzare l'energia dei giovani verso la loro inclusione nella società e nella realizzazione di cambiamenti positivi.
In questi giorni difficili, sono sicura che sia impopolare parlare dell'istruzione. Ma, credo che la migliore risposta sistematica ai problemi sia una buona e solida istruzione, con uguali possibilità per tutti e includendo i giovani nella società e nello stato. È impopolare, lo so, ma forse sarebbe il caso che durante la prossima finanziaria l'importo che viene destinato ai giovani e all'istruzione sia più alto.
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