Negli ultimi anni l’industria della difesa serba è entrata in una fase di grande dinamismo. Seppure limitata dalla sua arretratezza tecnologica, sta attraversando un vero e proprio periodo di boom economico
C’era una volta la Jugoslavia, uno dei più importanti esportatori di armamenti al mondo durante la guerra fredda. Grazie ad un sistema di produzione integrato di cui facevano parte tutte le repubbliche jugoslave, Belgrado creò una propria rete commerciale di armi, soprattutto con quelli che venivano chiamati i paesi del “terzo mondo”.
Grazie a questi commerci, la Jugoslavia poteva reinvestire nella propria industria della difesa riuscendo ad essere al passo con le evoluzioni tecnologiche del periodo e, conseguentemente, competitiva anche nei confronti dei grandi esportatori di armi.
Dalla fine delle guerre degli anni ‘90, però, il sistema integrato di produzione che vedeva la collaborazione di tutte le, oramai ex, repubbliche jugoslave è venuto meno. Solo negli ultimi anni, anche grazie a politiche attive da parte del governo, la Serbia ha veramente ripreso a vendere armi. In grandi quantità.
I problemi dell’industria e le politiche del governo
Dal 2003 in poi con la perdita, fra le altre, delle acciaierie e fabbriche di armi pesanti di Bosnia Erzegovina e Croazia, alla Serbia sono rimaste perlopiù industrie in grado di produrre armi leggere e munizioni: non abbastanza per poter essere competitivi sul mercato globale.
La maggiore problematica con cui la Serbia si doveva e si deve confrontare è l’arretratezza del suo reparto di ricerca e sviluppo, ruolo di capitale importanza nello scenario militare attuale dato il livello tecnologico dei sistemi d’arma. Nel contesto contemporaneo è sempre più difficile ottenere nuove tecnologie, avendo queste raggiunto livelli di sofisticazione tali da renderne virtualmente impossibile la replica in mancanza del know-how del produttore originario.
Visto lo stato delle cose, il governo serbo ha deciso di sostenere l’industria con politiche attive. Per riuscire a colmare il divario tecnologico nel 2017 è stato previsto uno stanziamento di quasi 50 milioni di euro, destinati appunto alla ricerca e sviluppo di nuovi sistemi d’arma. Nel 2018, invece, si è cercato di far passare una legge che avrebbe previsto la privatizzazione delle aziende esistenti, largamente sotto il controllo statale, per attrarre investitori stranieri. Osteggiata dai lavoratori, la proposta di legge è stata emendata e infine approvata. Più che una vera e propria privatizzazione prevede ora semplicemente un’apertura a eventuali ricapitalizzazioni: lo stato dovrà comunque essere detentore di almeno il 51% delle aziende del settore.
Ad oggi, comunque, l’unica azienda che ha dimostrato un vero interesse nell’investire in Serbia è stata l’italiana Beretta. A questo interesse, però, non è seguito un impegno concreto. Non va trascurato infatti come la mancanza di trasparenza e lo stretto controllo che il governo esercita su questo ramo industriale, anche con reti opache e clientelari, tendono a scoraggiare gli investitori stranieri poiché i loro interessi potrebbero non essere pienamente salvaguardati.
L’industria e il suo export
Per quanto restino grossi problemi di fondo, il governo è riuscito nel suo intento principale: vendere. Negli ultimi anni i ricavi dalla produzione di armamenti sono infatti aumentati sensibilmente. Il fatturato delle industrie della difesa è passato dai 131 milioni di euro del 2013 agli oltre 600 stimati per il 2018: più che quadruplicato in soli cinque anni.
Ma a chi vengono vendute le armi serbe? Di certo, la rete di contatti intessuta durante la guerra fredda ha aiutato. Analizzati con una prospettiva regionale, i dati del South Eastern and Eastern Europe Clearinghouse for the Control of Small Arms and Light Weapons (SEESAC) - ente che si occupa del monitoraggio del commercio di armamenti nell’Europa Sudorientale - mostrano come la crescita delle esportazioni sia stata sostenuta principalmente da paesi mediorientali e africani, per quanto non manchino gli acquirenti occidentali.
Andando a scorporare i dati sui singoli paesi si vede come tra i principali acquirenti di armi serbe vi sono paesi coinvolti in conflitti molto caldi, in cui sono state testimoniate varie e gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Si può notare ad esempio come negli ultimi anni l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti abbiano scalato la classifica dei principali paesi importatori.
I destinatari di questi traffici non sono passati inosservati alla stampa. Sembrerebbe, infatti, che le armi serbe siano state utilizzate in Siria e in Yemen da milizie irregolari, anche affiliate a gruppi di estremisti islamici, sostenute dai sauditi e dagli Emirati Arabi.
La scorsa estate, in Camerun, è stato ripreso un video in cui donne e bambini vengono giustiziati per mezzo di fucili della Zastava Armi. Questo video, analizzato e reso pubblico dalla BBC, ha portato Amnesty International a chiedere alla Serbia di interrompere la sua vendita di armi al Camerun.
Le polemiche, tra interesse economico e diritto internazionale
Commerci di armamenti tra i paesi balcanici e gli stati arabi coinvolti nei conflitti in Siria e Yemen sono stati portati alla luce da un’inchiesta giornalistica collaborativa nel 2016. Il governo serbo ha sempre respinto al mittente, con forza, le accuse di destabilizzare zone di conflitto già molto delicate vendendo armi a paesi che le dirottano a gruppi irregolari.
Quando nel 2016 i giornalisti chiesero spiegazioni sull’aumento improvviso delle vendite di armi, Aleksandar Vučić, allora Primo Ministro, spiegò come l’export bellico costituisca un bene per l’economia serba. Aggiungendo inoltre che avrebbe voluto aumentarne sempre di più il volume, ma che anche avessero triplicato la produzione, non sarebbero comunque riusciti a soddisfare tutti gli ordini ricevuti. Vučić si è poi lasciato andare ad una provocazione, sostenendo di non comprendere le ragioni delle polemiche in atto e che non essendoci alcun embargo nei confronti dell’Arabia Saudita la Serbia vende armi sottostando a tutte le leggi internazionali del caso, come gli Stati Uniti, e che con quei soldi vengono finanziati investimenti infrastrutturali nel paese.
La crescita economica è infatti la motivazione principale dietro al commercio bellico. Dal 2014 in poi i numeri delle esportazioni hanno iniziato a valere più dell’1% del PIL, generando un indotto che dà occupazione a più di 14000 persone. Questo dato, come ricorda il Belgrade Center for Security Policy (BCSP) in un documento che investiga queste dinamiche, ha un’importanza capitale. Secondo il BCSP, infatti, il governo serbo non avrebbe alcun interesse a proteggere un principio come “la pace nel mondo”, se per farlo dovesse mettere a rischio la sua ben più concreta pace sociale, perdendo ampie fette del PIL e lasciando disoccupate migliaia di persone.
Per quanto riguarda invece il quadro giuridico, la situazione è piuttosto complessa. Tecnicamente, la Serbia ha ratificato il Trattato sul Commercio delle Armi dell’ONU, ed ha una sua legislazione nazionale in grado di minimizzare il rischio che le armi esportate siano utilizzate contro la popolazione civile, o passate di mano dal compratore originario ad attori terzi. Ad esempio, nel 2014 e 2015, a causa della situazione in Darfur, sono state negate le licenze al Sudan. Sempre secondo il BCSP, comunque, le prescrizioni di legge sarebbero puntualmente disattese preferendo l’interesse economico, e l’unico strumento giuridico in grado di prevenire la vendita di armi sarebbe l’imposizione di un embargo da parte delle Nazioni Unite.
L’UE ha dichiarato nel 2016 che avrebbe approfondito la questione della vendita di armi dai Balcani e dalla Serbia ai paesi della penisola arabica che ne fanno un uso improprio. Non ne è seguito però nulla. Sarebbe stato infatti molto ipocrita: andando a paragonare le quantità di armi vendute dalla Serbia e dagli stati UE ai paesi arabi, quelle serbe sono solo una goccia nel mare.
Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
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