Con il progetto “Allenati per la vita”, i ministri Gelmini e La Russa introducono nella scuola superiore corsi di pratica militare. Sulla scorta della propria esperienza di gioventù, una nostra affezionata lettrice belgradese indirizza ai ministri una lettera aperta. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Gentili ministri Gelmini e La Russa,
vi scrivo questa lettera aperta in merito al vostro progetto congiunto chiamato “Allenati per la vita” ed al protocollo che in merito avete sottoscritto.
Sono stata profondamente scossa da questa vostra decisione di introdurre contenuti militaristi nella scuola superiore italiana e vi spiegherò perché.
Provengo dalla Jugoslavia, precisamente da Belgrado. Faccio parte della generazione del 1966 e quindi sono stata una pioniera di Tito.
Il sistema jugoslavo, come anche quello israeliano, aveva adottato una politica di difesa totale popolare. Essa consisteva nel servizio militare di leva obbligatorio e in regolari esercitazioni militari della popolazione, ma anche in una capillare educazione scolastica relativa alla difesa della patria. Fin dall’ultimo anno delle elementari c’era nei programmi scolastici, a livello nazionale, in tutte le repubbliche e regioni autonome della Jugoslavia, una materia denominata “Primo soccorso” che nell’ultimo anno delle medie diventava “Difesa totale popolare e protezione civile”. Prima, però, dovevamo superare gli anni del “Primo soccorso”: dalle tecniche per estrarre il veleno di un morso di serpente, alla famosa fasciatura di Esmark, alla respirazione bocca a bocca, massaggio cardiaco e così via…
Ci piaceva moltissimo questa materia, lo devo ammettere, ci dava il senso dell’avventura, ci divertivamo un sacco a fasciarci a vicenda e simulare storielle, con sghignazzate che accompagnavano il tutto.
Tutti però, aspettavamo il momento più importante, l’uso del fucile.
E arrivò anche questo. Ci esercitavamo con il Mauser M-48, un vecchio fucile, del peso di 4 kg e lungo circa 1 metro. Era di produzione jugoslava ed era il più venduto in assoluto nei vari paesi amici che al loro interno si scannavano. Ma al tempo noi questo non lo sapevamo. Non sapevamo che il nostro benessere dipendeva anche da quelle armi vendute e con le quali gli altri si massacravano. Anni dopo lo abbiamo scoperto a nostre spese… Gli altri avrebbero costruito il loro benessere sulla nostra, di pelle, e la ruota della fortuna continuava a girare…
Non so se ci sembrava di giocare a partigiani e nazisti, gioco che abbiamo sempre fatto da bambini, solo che stavolta lo si faceva con fucili veri, ma mi ricordo che ci piaceva.
Noi ragazze avevamo una paura matta che il fucile, nello sparo, ci staccasse la spalla, dato che ci avvertivano di tenerlo più fermo possibile perché tendeva fortemente indietro e se non si stava attenti la spalla la si poteva persino rompere!
Fu un'emozione immensa andare con la classe sul poligono fuori città e tirare al bersaglio. Dovevamo sdraiarci sugli appositi materassini, in fila, con le orecchie tappate con le cuffie. Avevamo in dotazione un caricatore di 5 pallottole e, sparate quelle, dovevamo caricarne altre 5.
Feci tutto e rimasi sorpresa quando fui chiamata dal professore e da un militare. Avevo tirato meglio di tutti gli alunni della scuola. Non ci potevo credere. Mi invitarono a partecipare alla competizione di tiro della mia città. Mi dimenticai la data e non ci andai. Il professore si offese a morte e mi tolse l’ottimo che mi ero guadagnata sparando.
Alle superiori, per quattro anni abbiamo studiato le varie dottrine militari: dall'antica “Arte della guerra” del cinese Sun Tzu a Carl von Clausewitz e a tutte le strategie della difesa popolare jugoslava, di chiara ispirazione partigiana, grazie alla quale siamo stati l’unico paese in Europa ad essersi liberato da solo. Questo ci riempiva d’orgoglio.
Inoltre si continuava con l’uso del fucile, della pistola e anche della bomba a mano. Nei primi due mantenni la costante bravura. Con la bomba a mano non ebbi la stessa fortuna e per poco non feci saltare in aria il professore! Non ero portata, mi dicevano…
Eravamo ignari che tutto quanto avevamo imparato, ci sarebbe servito negli anni a venire per meglio scannarci tra di noi in una guerra civile atroce. Io non vi ho preso parte, per fortuna, ma tanti miei amici, di svariate etnie, sì. Alcuni non li ho mai più rivisti.
In questo senso, cari ministri, reputo la vostra decisione sbagliata, se anche mossa in buona fede.
Non serve ai ragazzi saper sparare per meglio comprendere le forze armate o per avvicinarsi al volontariato o alla Croce Rossa.
La militarizzazione della scuola, prima o poi porta alla militarizzazione della società. Prendete l’esempio dal modello che vi ho descritto. Oppure da quello israeliano che è persino più duro di quello che un tempo fu jugoslavo. E vediamo qual è la realtà israeliana…
Un mio caro amico, Nebojša Milosavljević, attuale sindaco di Blace, cittadina nel sud della Serbia, nel suo libro autobiografico “In una bizzarra guerra per disperazione”, in cui descrive la sua partecipazione alla guerra in Kosovo, dove fu chiamato alle armi, dice:
“Da minorenne sono stato addestrato a maneggiare il fucile, lo stesso che oggi, in piena maturità, uso in una guerra vera! Non è che forse la prima cosa ha prodotto quest’ultima? Al punto che questa guerra banale non è che un (di)effetto senza precedenti della prassi real-socialista, proprio per il fatto che invece di ricevere un insegnamento sui valori democratici, abbiamo fatto pratica di contenuti militaristi. E non viene forse legittimato l’epilogo di quella concezione militarista della politica e della società, che anche io devo scontare, qui ed ora in modo così paradossale? (Kosovo, 14 giugno 1999)”.
Ci sono molti modi per avvicinare i ragazzi al volontariato ed alla protezione civile. E soprattutto alla Pace.
Non sono i tempi né di von Clausewitz né dei tiri con la pistola, seppur ad aria compressa.
È tempo di costruire la pace. Con la solidarietà e il dialogo. Cominciando dalla propria casa e dalla scuola.
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