Un partito in cui tutto (e niente) è cambiato. E' il Partito socialista della Serbia (SPS) oggi pilastro del governo filo-europeo, ieri creatura politica di Milošević. Al suo timone Ivica Dačić, l'uomo che è riuscito a riportare i socialisti al centro del sistema politico serbo senza rinnegare esplicitamente l'eredità degli anni Novanta
“Vorrei che il nuovo Partito socialista della Serbia (SPS) fosse in grado di rivolgersi alla Serbia del 2010 e del 2020 con un progetto nuovo, in grado di dare risposte alle nuove sfide, quelle che non esistevano negli anni Novanta. Se tra vent'anni l’SPS sarà ancora lo stesso, allora significa che abbiamo lavorato per niente”. Così sentenziava Ivica Dačić, presidente dell'SPS, all'indomani delle ultime elezioni parlamentari (2008) che hanno rilanciato nell’orbita politica i socialisti.
Un corso politico pro-europeo, indissolubili relazioni con la "madre Russia", una “storica riconciliazione” con il Partito democratico (DS), l'eterno gioco sul filo del rasoio con l’eredità degli anni Novanta, vecchi e nuovi politici con una retorica completamente nuova, un'identità politica di centro-sinistra, partner fedele e stabile di Boris Tadić, l'assenza di qualsiasi ideologia. Ecco in breve le caratteristiche del Partito socialista della Serbia oggi.
Se non si trattasse della Serbia, tutto questo sarebbe impossibile. Solo da queste parti può reggere una situazione così schizofrenica, in cui l’SPS da un lato lotta con tutte le forze per l’inclusione nell’Unione europea e dall’altro fa il possibile per riavvicinare il paese alla Russia. Solo in Serbia è possibile che il pupillo dell’allora regime di Slobodan Milošević, ed oggi ministro degli Interni, Ivica Dačić, venga proclamato come il "campione del processo europeo" grazie ai successi ottenuti nell’adempimento delle condizioni necessarie per l’abolizione dei visti per i cittadini della Serbia.
Solo in questo paese è possibile, o forse solo a noi sembra così, che nel giorno della morte di Slobodan Milošević sulla sua tomba a Požarevac vadano in visita i più alti funzionari del partito, ma non lo stesso Dačić. A quanto pare, così si sono accordati. Probabilmente prendere le distanza dall’eredità di Milošević serviva per instaurare buone relazioni con i democratici e per convincere i nuovi elettori, e anche quelli che dimenticano facilmente, che siamo di fronte ad un nuovo SPS.
Tutto questo è stato fatto da Dačić insieme ai suoi più stretti collaboratori, quelli coi quali negli anni ha costruito la scalata al vertice del partito. Gli stessi che a suo tempo, nel 1996, durante le manifestazioni studentesche, avevano soffocato la rivolta nelle università, mettendo all’indice i colleghi che avevano scioperato a causa dei brogli elettorali.
Sono anche quelli che, nel 1999, dichiaravano a più non posso che Otpor era un’organizzazione fascista e incitavano all’arresto dei suoi membri. Le stesse persone, anche se l’abito che indossano oggi è più moderno, che dopo i cambiamenti del 2000 affermavano con convinzione che sono stati proprio loro ad aver salvato dal carcere gli attivisti di Otpor. Oggi, gli ex Otpor e i rinnovati socialisti siedono insieme sui banchi del parlamento e ridono di gusto quando qualche noioso giornalista chiede loro se si ricordano ancora degli anni Novanta.
Si dice che nell’SPS esista anche una “corrente dura”. Di questa fanno parte quelli che vanno a far visita alla tomba di Milošević e che non prendono facilmente le distanza dalla sua eredità. Nei loro uffici, anche se in un angolo, continuano ad esporre la foto del grande capo. Sono attraenti per i vecchi elettori socialisti. Si oppongono a Dačić, cercando di portare un equilibrio nel partito e di porre fine all'ambizione del nuovo leader di assumere il controllo completo. Il ministro dell’Istruzione Obradović è uno dei nomi che appare più spesso come rappresentante della corrente dura. Compaiono anche altri nomi, ma meno di frequente, perché molto spesso si tratta di uomini che sono giunti alla fine della carriera.
Tra i due fuochi, come un casco blu, si trova il più divertente di tutti i ministri serbi, Milutin Mrkonjić, rimasto là dove era prima dei cambiamenti di ottobre (5 ottobre 2000, data della caduta di Milošević, ndt.). Mrkonjić, infatti, è stato alla guida della ricostruzione del paese durante e dopo i bombardamenti sulla Serbia, e ha ricostruito i ponti promettendo la rinascita del paese in tre mesi. Oggi, ironia della sorte, è ministro delle Infrastrutture e continua a ricostruire il paese, ponti e rotatorie inclusi.
A parte gli scherzi, l’SPS è un partito che ha futuro nell'assetto parlamentare serbo. Nemmeno la drammatica sconfitta del 2000, né tutti gli scandali, l’arresto e poi la morte del leader del partito hanno fatto scendere i socialisti sotto la soglia di sbarramento. Quasi sei anni dopo i cambiamenti in Serbia, l’SPS brancolava nel buio, sopravviveva a stento, perdeva pezzi e cercava il modo per tornare sulla scena politica. Tanto è servito a Dačić per assumere il ruolo guida del partito. In quel periodo era necessario portare tutte le correnti opposte sotto lo stesso tetto e liberarsi dei nostalgici più agguerriti, come Milorad Vučelić, che volevano ad ogni costo mantenere la strada percorsa da Slobodan Milošević.
I congressi dell’SPS tenutisi fino al 2006, periodo in cui Milošević era ancora formalmente il presidente dei socialisti serbi e in cui ha svolto la propria funzione persino dal carcere di Scheveningen, sono i migliori indicatori dello scisma interno al partito. "Slobo" fu capolista durante le elezioni anticipate del 2003, perché all’epoca la leadership del partito, accogliendo il desiderio dei suoi elettori, aveva concluso che sarebbe stato possibile superare la soglia di sbarramento solo con l’aiuto dei seguaci di Milošević. Alla fine del 2005, durante la convention in cui fu celebrato il quindicesimo anno dell’SPS, ogni riferimento a Milošević suscitava frenetiche ovazioni in sala.
Solo dopo la sua morte, nel 2006, Ivica Dačić iniziò seriamente ad assumere il controllo del partito. È in quel periodo che prende forma l’attuale Partito socialista della Serbia. Pragmatico e senza una particolare ideologia. Pronto alla collaborazione con tutti. Non appesantito dal passato, a meno che questo non torni utile, un giorno o l'altro. Orientato verso l’Europa con uno sguardo alla Russia. Un partito che, come il G17 plus, raramente nomina il Kosovo. Un partito populista il cui obiettivo è la classe media istruita. Un partito di politici educati che non usano il linguaggio dell’odio. Una partito il cui leader deve sempre guardarsi alle spalle da possibili attacchi. Un partito "socialdemocratico", ovvero "orientato verso il socialismo", come l'hanno definito i suoi membri con la dichiarazione elaborata al VI congresso del SPS nel 2003. Un partito in cui tutto (e niente) è veramente cambiato.
Questo è oggi il Partito socialista della Serbia. Gentile e fine. Membro della coalizione di governo. Ad alcuni (ma sono sempre meno) suscita ancora i crampi allo stomaco. Dimenticare o accettare la realtà, non abbiamo alternativa. Ma forse anche questo fa parte di un normale processo politico. Forse l’unica cosa che resta ai cittadini serbi per poter avere fiducia nei politici, per poter credere che sono in grado di cambiare, è convincersi che i tempi sono cambiati e che in Serbia è stato compiuto un tale passo verso la democrazia che gli anni Novanta non possono più tornare. Con o senza il Partito socialista della Serbia.
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