Le kafane belgradesi, sessant’anni fa
9 agosto 2019
Alla fine degli anni Cinquanta Belgrado cresceva a vista d’occhio. Migliaia di persone da tutta la federazione jugoslava si trasferivano nella capitale anno dopo anno. Tra di loro c’era Sergio Turconi. Nato a Milano nel 1926, come molti altri giovani era partito per la nuova Jugoslavia socialista dopo la guerra, con l’idea di partecipare alla “costruzione dal socialismo” nel paese vicino.
Per una decina di anni era stato a Fiume, dove aveva iniziato a lavorare per il quotidiano La Voce del Popolo e per pubblicazioni della minoranza italiana in Jugoslavia. Si trasferì a Belgrado nel 1957, inizialmente come corrispondente per il giornale. Qui si laureò, e ottenne il dottorato con una tesi sulla poesia neorealista italiana, divenne studioso di letteratura e insegnò all’Università di Belgrado fino a metà anni Novanta. Dal 2014 era tornato a Fiume, dove si è spento a novantanni, lo scorso 24 aprile.
Abbiamo rintracciato uno degli articoli inviati da Sergio Turconi a La Voce in quegli anni. Il pezzo ci restituisce lo sguardo di un giovane trentenne sulla vita sociale e sul tempo libero dei belgradesi del 1959, sessant’anni fa. Turconi si sofferma sulle opposizioni spesso riproposte dai resoconti di viaggio nei Balcani prodotti da chi arriva da Ovest. È colpito dal confronto tra gli elementi della “tradizione” e la “modernità” incalzante, tra “autenticità” locali e contaminazioni estere. Ma al contempo ci porta a passeggio tra le vite quotidiane dei belgradesi del tempo, svelandoci i riflessi di una stagione che effettivamente trasformò il paese e la sua capitale. Colpiscono le trasformazioni ma anche le continuità con la Belgrado di oggi, si riconoscono i nomi di alcuni locali ancora molto noti come Tri šešira, ma anche quelli di altri non sopravvissuti agli ultimi anni come Zona Zamfirova. C’è anche l’immancabile Znak Pitanja (Punto interrogativo), molto prima che finisse sulla Lonely Planet.