La giudice italiana Flavia Lattanzi, uno dei tre componenti del collegio giudicante nel processo a Vojislav Šešelj, spiega la sua contrarietà alla sentenza. Intervista
Giudice Lattanzi, lei si è espressa in maniera contraria a quasi tutte le conclusioni del collegio giudicante nel processo Šešelj. Perché?
Perché sono conclusioni che si basano su postulati generali, non sull'analisi specifica degli elementi di prova. La tendenza della maggioranza dei giudici, espressa più volte chiaramente, era di cercare di giustificare le singole contestazioni con considerazioni generali, argomentando ad esempio che la secessione era illegittima, o che i serbi si difendevano, o che in guerra esiste la violenza, o che il procuratore non aveva chiarito bene le accuse. Il tutto per ridurre al nulla gli elementi di prova, per rendere senza senso l'esame degli elementi di prova. Questo atteggiamento ha distrutto il processo dalle fondamenta.
Cioè la maggioranza tendeva a giustificare gli atti criminali con considerazioni di natura storica e politica?
Sì, certo.
Quali sono invece i crimini per i quali secondo lei la Procura aveva presentato prove sufficienti a determinare la condanna dell'imputato?
La procura aveva presentato prove sufficienti per i crimini contro l'umanità, che invece la maggioranza ha escluso del tutto dicendo che non esisteva un attacco generalizzato e sistematico, cioè l'elemento di contesto necessario perché ci siano crimini contro l'umanità. Non essendoci l'attacco, non potevano esserci crimini. Quindi non sono neppure andati a analizzare gli elementi di prova su questi crimini, cioè la persecuzione, l'espulsione e il trasferimento forzato, che erano il nodo della vicenda.
Si è trattato dunque di un problema di impostazione generale, più che di errori gravi commessi nella determinazione della sentenza?
Entrambi. Insieme al problema dell'impostazione generale sono stati anche commessi errori gravi di diritto e di fatto. Ad esempio è stata esclusa l'esistenza di una impresa criminale comune sulla base di elementi di prova che secondo me non erano pertinenti. Se un onesto ufficiale serbo si ribella a quello che stanno facendo sul terreno i volontari di Šešelj, ma i suoi superiori presenti sul terreno invece coprono [le azioni dei volontari], questo non significa che non ci sia un'impresa criminale comune, al contrario. Del resto avendo eliminato l'espulsione come crimine contro l'umanità, si è svuotata anche di senso l'impresa criminale comune, che il procuratore provava proprio con riferimento al trasferimento forzato delle popolazioni.
Secondo la maggioranza dunque l'espulsione non era rubricabile come crimine contro l'umanità, ma le persone lasciavano volontariamente le proprie case?
Esatto.
In che modo questa sentenza differisce dalla precedente giurisprudenza del Tribunale penale dell'Aja per l'ex Jugoslavia, in particolare per quanto riguarda la fattispecie dell'istigazione e favoreggiamento? Le parole di Šešelj erano chiare, e le attività di reclutamento dei volontari pure. Se questo non corrisponde a istigazione e favoreggiamento, che cosa lo è?
Questo bisognerebbe chiederlo alla maggioranza. La maggioranza ha ritenuto che si trattava semplicemente di un aiuto allo sforzo di guerra.
Tutto questo però è in contrasto con precedenti sentenze del Tribunale per l'ex Jugoslavia...
Certo, come anche la questione dell'accertamento di un attacco generalizzato e sistematico. Lasciamo perdere la Vojvodina, che era un punto più delicato e complesso. Ma per quanto riguarda la Croazia e la Bosnia Erzegovina ci sono tantissime sentenze che sulla base degli stessi fatti e delle stesse prove hanno affermato l'esistenza di un attacco generalizzato e sistematico. Questa sentenza invece dice che non esisteva un attacco, ma che c'erano solo iniziative militari. Le espulsioni poi non ci sono perché la gente “partiva”. Si è riusciti persino a dire che i bus organizzati dalle forze serbe per far partire le persone erano assistenza umanitaria... Sono cose veramente inaudite, non posso dire altro. Nella mia opinione dissenziente ho scritto che sembra di essere tornati ai tempi dei Romani, quando in tempo di guerra le leggi erano sospese.
Quanto ha contato l'intimidazione dei testimoni nella manipolazione delle prove e nell'economia generale del processo?
Ha contato tantissimo, e di questo non è stato tenuto il minimo conto. Abbiamo avuto molti testimoni che avevano fatto dichiarazioni preliminari al procuratore incriminanti nei confronti di Šešelj, quando la procura raccoglieva prove sui fatti in Croazia e in Bosnia Erzegovina. Poi ci sono state le intimidazioni e le minacce. Alcuni testimoni, coraggiosi, sono venuti in aula e hanno confermato le dichiarazioni preliminari. Molti altri testimoni importanti invece, insider, la cui testimonianza pesava moltissimo tra gli elementi di prova, hanno smentito in aula tutto quello che avevano dichiarato al procuratore. Abbiamo avuto grandi discussioni su questo nel collegio giudicante. Naturalmente non posso svelarne il contenuto. Le posso garantire però, e appare chiaro anche se si leggono i verbali delle udienze, che era del tutto evidente che le smentite erano conseguenza di minacce e intimidazioni. Questi avevano paura, morivano di paura davanti a Šešelj. Bastava lo sguardo di Šešelj. Io guardavo continuamente i testimoni, e Šešelj che controinterrogava. Erano impauriti. Alcuni hanno avuto il coraggio di testimoniare, nonostante tutto. Altri no. E di questo non si è tenuto conto, si sono prese pari pari le cose dette in udienza invece delle dichiarazioni preliminari. Anche quando le dichiarazioni preliminari si corroboravano inter se ed erano corroborate da altri elementi di prova.
Alla luce di queste considerazioni, che valutazione possiamo dare della prassi di permettere agli imputati di difendersi da soli?
La questione del difendersi da solo è un diritto che è stato dato dalla Camera d'Appello, e io non lo voglio contestare. Ma la capacità di intimidire non dipende dal fatto che un imputato si difenda da solo. Le intimidazioni avvenivano anche fuori dall'udienza, ad opera dei collaboratori. C'erano molte persone intorno a lui, aveva un'équipe di difesa molto nutrita, internazionale. Tutti questi erano ai suoi ordini, anche per intimidire i testimoni.
Qual è lo stato del diritto penale internazionale dopo la sentenza Šešelj?
Dal mio punto di vista, questa sentenza non conta nulla.
In che senso?
Nel senso che è fatta talmente male, sia in fatto che in diritto, che è una nullità.
Quindi?
Quindi resta la delusione per le vittime, ma il diritto penale internazionale non soffre assolutamente per una sentenza del genere. È talmente sbagliata, in fatto e in diritto, che non conta nulla.
Non farà giurisprudenza?
No, assolutamente no, glielo assicuro. Sotto certi aspetti, potevano arrivare a queste conclusioni in modo più decente.
Con che stato d'animo ha concluso il suo lavoro presso il Tribunale dell'Aja?
Negli ultimi mesi, forse due o tre anni, ho sofferto molto. Ho resistito grazie al lavoro che ho potuto svolgere in altri processi, ad esempio ero giudice di riserva nel processo Karadžić. Lì si è lavorato molto bene, con un'équipe di legal officers molto competenti. Invece ho sofferto molto nel caso Šešelj.
Come è possibile che nel diritto penale internazionale si arrivi a conclusioni così diverse?
Ancora adesso mi chiedo perché questa sentenza sia finita in questo modo. Dentro di me faccio delle ipotesi, ma non le posso certo rivelare. Non posso dire quello che penso. Posso dire però che ritengo che non farà giurisprudenza, e penso che questo lo sappiano tutti, e che sia stato un grosso incidente. Però è un incidente del Tribunale per l'ex Jugoslavia, non di tutta la giustizia penale internazionale.
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