Pochi media in Serbia si sono concentrati sulle motivazioni della condanna all’ergastolo per Ratko Mladić. Scarse le parole sui crimini compiuti dall’ex comandante, come se il passato non esistesse
“Il mio invito ai cittadini della Serbia è che da oggi si inizi a guardare al futuro, a mantenere la pace e la stabilità nella regione, a far vivere i nostri figli e aprire più fabbriche... Non dobbiamo soffocare con le lacrime del passato, ma piuttosto col sudore del lavoro, per creare una Serbia migliore”, ha detto il presidente serbo Aleksandar Vučić alla notizia che il Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia (TPI) all’Aja ha condannato all’ergastolo il comandante dell'esercito della Republika Srpska, generale Ratko Mladić.
Parlando di futuro, Vučić ha evitato di commentare il fatto che Mladić è stato condannato per il genocidio di Srebrenica, crimini contro l’umanità e violazione degli usi e costumi di guerra in Bosnia Erzegovina.
Il suo messaggio, rivolto sia al pubblico locale che a quello internazionale, potrebbe essere interpretato come il tentativo di mettere la parola fine su un tema dolente, il genocidio di Srebrenica, che tutt’ora grava sui rapporti tra Serbia e Bosnia Erzegovina. Qualcuno lo interpreterà come un “allentare la presa” alla vigilia dell’incontro con il membro della presidenza della BiH Bakir Izetbegović, annunciato per l’inizio di dicembre e per convincere l’UE che è proprio lui il leader che può garantire la stabilità della regione.
Molti si sono ricordati che proprio Vučić, al tempo in cui era alto funzionario del Partito radicale serbo di Vojislav Šešelj, aveva incollato sulle targhe del boulevar dedicato a Zoran Đinđić a Belgrado placche con la scritta "boulevar Ratka Mladića", e che negli anni Novanta l'attuale presidente era uno dei più rumorosi sostenitori della guerra per la “grande Serbia”, e quindi che il suo discorso fa parte di un percorso di allontanamento dal suo di passato politico.
L’essenza del messaggio “guardiamo al futuro” è l’incapacità - sia dell’élite politica di governo che di gran parte della società serba - di fare i conti con i crimini degli anni '90, in particolare con il genocidio di Srebrenica. Questo elemento è emerso in modo evidente da come la maggior parte dei media si è comportata prima, durante e dopo la lettura della sentenza contro Mladić.
Prima della sentenza: ignorare le accuse
Nei giorni precedenti alla sentenza, in particolare sulla stampa controllata dal governo, i testi su Mladić rimandavano alla sua “biografia eroica”, al suo precario stato di salute, ai complotti mondiali contro la Serbia e i serbi, alle ingiuste sentenze pronunciate all’Aja. “Il Tribunale dell’Aja è stato il peggior lager per i serbi?”; “Tutti i segreti di Ratko Mladić”; “Il Mengele dell’Aja uccide Ratko Mladić”; “Strategia criminale del Tribunale: condannare Mladić e farlo morire entro tre mesi”, sono solo alcuni dei messaggi lanciati nei titoli di apertura della stampa serba.
Interviste coi membri della famiglia Mladić hanno ulteriormente rinforzato l'immagine di una sentenza preannunciata come devastante per il comandante serbo. In questo contesto, i lettori hanno quindi potuto leggere le dichiarazioni di suo figlio: “Volevano rinchiudere Ratko in un manicomio”, oppure le confessioni di sua moglie su come agenti segreti l’avevano pedinata quando Mladić si nascondeva, fuggendo al mandato di arresto del Tribunale dell'Aja.
Solo su alcuni media, la tv N1 e il quotidiano Danas per esempio, si è potuto ascoltare o leggere qual era il contenuto dell’accusa, per quali crimini Mladić veniva accusato. Molta più attenzione è stata rivolta alle statistiche e alle analisi delle sentenze comminate dal Tribunale dell’Aja, costatando perlopiù che è un tribunale politico orientato contro i serbi.
La tendenza ad ignorare le accuse e la stessa sentenza è stata particolarmente evidente nel modo in cui le tv a copertura nazionale hanno trasmesso il processo. Il servizio pubblico, la Radio Televisione della Serbia (RTS), la tv più vista e più influente del paese, è stata l'unica emittente nazionale ad aver trasmesso la diretta dal Tribunale. Tuttavia è riuscita a "nascondere" la sentenza perché l'ha trasmessa solo sul secondo canale, molto meno visto del primo. Anche la data della sentenza era nota da tempo, la RTS non si è preoccupata di realizzare altri contenuti e servizi sull'accusa, sul processo e su Ratko Mladić, o di avere commentatori in studio, tanto che durante una pausa non prevista durante il processo è stata mandata in onda una trasmissione sul bestiame.
La televisione Pink, una delle più viste - e per la sua politica redazionale molto vicina al partito del presidente serbo -, durante la lettura della sentenza ha messo in onda un dibattito che ha ricordato la retorica degli anni Novanta, trasmettendo solo un paio di volte la diretta dal tribunale. Eccetto un ospite, gli altri cinque invitati (con a capo l’ex accusato dall’Aja e leader del Partito radicale serbo Vojislav Šešelj) hanno spiegato ai telespettatori che non c’è stato alcun genocidio a Srebrenica, che i bosgnacchi sono stati uccisi mentre tentavano di attraversare campi minati e in scontri armati, seguiti alla decisione di non accogliere l’invito dell’esercito di Mladić a far ritorno nelle proprie case, il tutto condito da teorie cospirative su funzionari stranieri e sullo stesso Tribunale come nemici del popolo serbo.
Le restanti tre emittenti nazionali non hanno trasmesso affatto la diretta della sentenza ed è solo grazie alla tv via cavo N1 che i telespettatori hanno potuto vedere e ascoltare, in un programma speciale che è durato tutto il giorno, la sentenza, l’accusa e il lavoro del Tribunale, e oltre a quello che succedeva all'Aja anche la voce di commentatori importanti e funzionari locali e stranieri.
Chi non era sintonizzato su N1, ha potuto sapere nel modo più veloce possibile cosa stava succedendo nell’aula del Tribunale dell’Aja grazie ai portali e ai social media, che negli ultimi anni per molti cittadini della Serbia si sono trasformati nel media più attendibile e puntuale.
Il giorno dopo: la stampa scrive sulla sentenza della NATO e sull’ipertensione di Mladić
Il giorno dopo la sentenza Mladić i giornali sono usciti coi titoli sulla condanna a vita inflitta al generale serbo-bosniaco. I tabloid ad alta tiratura hanno titolato: “Mladić dopo la sentenza: sono stato condannato dalla NATO”, “Mentite, vi f… la madre”, “Il tribunale del mio popolo è più importante di quello dell’Aja: per dispetto vivrò 124 anni”, “E’ tutta una menzogna: moglie, figlio, non piangete, è solo il primo tempo”.
Nei servizi dedicati alla sentenza si potevano leggere testi con le seguenti affermazioni: “Questo significa: uccidere i serbi non è un crimine”, seguiti da statistiche in cui si mostrava che i serbi sono il maggior numero degli accusati dal Tribunale dell’Aja, insieme ai dati sui valori della pressione sanguigna dell'ex generale misurati nella pausa durante la lettura della sentenza.
In particolare, è stato sottolineato il fatto che Mladić non è stato condannato per tutti gli 11 capi di imputazione e che l'accusa di genocidio è stata archiviata in sei comuni della Bosnia Erzegovina. Degli otto quotidiani nazionali, solo Danas, Politika e Večernje novosti hanno riportato estesamente le ragioni del verdetto. Večernje novosti ha fatto un passo in più, inviando un giornalista nel villaggio natio di Mladić per parlare con i parenti e perfino nel villaggio dove si era nascosto fino all’arresto e dove, come dice il titolo, “Il vecchio cane di Ratko è ancora di guardia”.
Tuttavia, ci si può aspettare che in Serbia la sentenza a Ratko Mladić cada presto nel dimenticatoio. Il giorno in cui è stata pronunciata, solo poche decine di cittadini guidati dal partito Dveri si sono radunati per protestare nel centro di Belgrado, per poi dileguarsi in fretta. Il giorno dopo, la sentenza non è stata oggetto di dibattito nella sessione dell'Assemblea nazionale, mentre nei notiziari televisivi più seguiti le reazioni al verdetto sono finite sotto altre notizie, evidentemente più “importanti”.
In linea con il messaggio del presidente Vučić di “guardare al futuro”, senza “soffocarsi con le lacrime del passato”, e con il silenzio mediatico sui crimini che hanno avuto luogo poco più di una ventina di anni fa a un centinaio di chilometri da Belgrado, la Serbia, ovviamente, rimarrà divisa per molto tempo rispetto agli “eroi”, ai crimini e alla propria responsabilità nelle guerre degli anni Novanta.
Sia Srebrenica che Mladić serviranno, se e quando sarà politicamente necessario, per creare future tensioni tra Serbia e BiH e nella regione, oppure per giudicare l’”ingiusta” comunità internazionale. In tutto ciò - a giudicare da come giornali e tv hanno informato il pubblico fino a oggi -, il potere a Belgrado può contare sull'appoggio incondizionato o quasi dei media serbi, che seguono con alacrità le indicazioni che arrivano dai piani alti della politica.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
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