Lei è serba, si è trasferita in Croazia; lui è croato, si è spostato in Serbia. Come vivono queste coppie che hanno superato i confini grazie all’amore? Come si viene accolti nel paese d'adozione? Piuttosto bene, sentendo loro
(Pubblicato originariamente da Novosti , tradotto e selezionato da Le Courrier des Balkans e OBC Transeuropa)
Milica Mataja-Mafrici, 32 anni, è nata a Svilajnac, in Serbia, ma vive con suo marito croato a Fiume ormai da otto anni. Sposando il suo compagno, Milica ha ottenuto lo status di coniuge di un cittadino dell'UE e dovrebbe a breve ottenere anche la cittadinanza croata. Le sue esperienze a Fiume sono per lo più positive anche se si dice consapevole di non aver sperimentato di persona tutti quegli ostacoli che i serbi spesso incontrano presentandosi davanti ad uno sportello dell’amministrazione.
Ad un mese solo dal suo arrivo in Croazia, ha ottenuto un lavoro come assistente di marketing ed ha lavorato in questo settore per i successivi sette anni. La sua origine, la sua lingua e la sua laurea alla facoltà di scienze politiche di Belgrado non sono mai state un problema per nessuno, dice. Nemmeno i suoi parenti in Serbia hanno mai commentato in modo negativo la sua decisione di trasferirsi in Croazia.
"Quando, dopo aver avuto una vita sociale molto intensa, vivi in una città dove conosci solo tuo marito, la sua famiglia e i suoi amici, puoi subire uno shock. Per fortuna, per me, questa situazione non è durata a lungo. Ho creato rapidamente la mia cerchia di amici", racconta Milica.
Milica si dice comunque consapevole della tragedia della comunità locale serba che ha attraversato la guerra, di coloro che sono stati costretti alla fuga e di chi invece ha deciso di restare. A suo avviso vi è una differenza rilevante tra i serbi originari della Serbia che vivono in Croazia e i serbi della Croazia. "Ho trovato insolito che le istituzioni serbe in Croazia mi accettino automaticamente solo perché sono serba, ma questo cosa dice di me? La mia identità ha così tante stratificazioni, non sono solo serba. E tutta questa faccenda tra serbi e croati è come il tempo atmosferico, ognuno ha un'opinione al riguardo. Rispetto le tragedie che la gente ha vissuto, ma non credo che debba essere la pietra miliare delle relazioni future. Cercherò sempre di parlare di cose positive”.
Milica aggiunge poi che la cultura è un'eccellente piattaforma per collegare i due paesi, e che le persone mature, istruite e consapevoli contribuiscono più dei governi alle buone relazioni. Dice che l'attenzione dei media si concentra troppo sui conflitti ai margini della società ed è particolarmente efficace nel manipolare il pubblico. "Non credo che dovremmo dare così tanta attenzione mediatica ai conflitti che avvengono perché qualcuno ha bevuto e imprecato. Naturalmente, il discorso dell'odio non dovrebbe essere ignorato, ma mi piacerebbe vedere che venissero raccontate più storie positive. Proviamo a farlo e vediamo dove si va a finire", suggerisce.
“Hai un bell’accento, da dove vieni?”
L’opinione di Milica è condivisa da Saša Petrović, 34 anni, di Čiovo. Vive a Belgrado da più di cinque anni ed è il presidente di Zelena tranzicija (Transizione Verde), un'associazione per la sensibilizzazione in tema di agroecologia. Come Milica, si è trasferito per amore.
Quando gli si chiede come vive ciò che sente in TV o legge nei giornali delle tensioni tra Serbia e Croazia dice che tutto è lontano anni luce dalla realtà. "Non esiste nella vita quotidiana, è una costruzione politica fittizia. Naturalmente, se ti imbatti in un gruppo di tifosi di calcio tutto può accadere. Ma ci sono poche possibilità di vivere in prima persona le supposte crescenti tensioni tra Serbia e Croazia", dice Saša che racconta anche che il suo accento dalmata fa spesso ridere i serbi.
"Al mercato, la gente mi saluta con entusiasmo, dicendo: 'Hai un accento bello e melodioso, da dove vieni, sono stato a Kaštela o Trogir negli anni '70'. La Dalmazia è uno spazio idealizzato nell'immaginazione dei belgradesi, evoca bei ricordi della Jugoslavia. Come croato in Serbia, non senti alcun elemento di politica nazionalista, nessuna animosità o tensione nella tua vita quotidiana. Non bisogna dimenticare che Belgrado è ancora una grande città multiculturale e la capitale jugoslava...".
Avendo parte della sua famiglia in Serbia, conosceva il paese anche prima di trasferirvisi. È grazie al suo capitale sociale che ha trovato tra l’altro il posto di lavoro che oggi ha a Belgrado. Saša, come unica aggravante, cita il permesso di soggiorno, che costa 150 euro all'anno, e il permesso di lavoro, che costa 120 euro all'anno. "Questi permessi non portano alcun beneficio, sono solo carta, costi amministrativi. Il mercato del lavoro in Serbia ha misure protezionistiche. Quando ti candidi per un lavoro, il Servizio Nazionale per l'Impiego controlla prima se c'è abbastanza manodopera locale per quel lavoro con un'analisi di mercato. Poi se ti dicono che non ci sono abbastanza lavoratori [serbi] per quel lavoro tu inizi a lavorare. Saša aggiunge che, amministrativamente, i croati sono considerati dai serbi cittadini dell'UE e i serbi dai croati cittadini di un "paese del terzo mondo"... Per lui, queste sono solo sovrastrutture artificiali che bloccano le relazioni di buon vicinato.
“Serbia, paese del terzo mondo”
La frase "Serbia, un paese del terzo mondo" ha attirato anche l'attenzione di Filip Balunović, un trentenne politologo di Belgrado, quando si è recato per la prima volta a uno sportello di Zagabria per richiedere un permesso di soggiorno di un anno. "L'impiegato mi ha detto quattro volte che venivo da un paese del terzo mondo e che la Croazia era nell'UE. Stiamo parlando di una persona che ha la stessa età dei nostri genitori e che ha vissuto in Jugoslavia. In Croazia, la Jugoslavia è quasi un insulto, anche per chi ha visioni più liberali. In Serbia, invece, anche tra i nazionalisti e i conservatori, troverai sempre qualcuno che dirà qualcosa di positivo sulla Jugoslavia, anche se nella frase successiva incolperà tutti - tranne i serbi - della sua disgregazione..."
A parte l’esperienza in quell’ufficio, Filip non ha vissuto nessun'altra situazione spiacevole a Zagabria, forse perché - dice - parla solo se deve. "Non è per paura, ma piuttosto per un semplice desiderio di passare inosservati. Se parli ekavski (tipologia di pronuncia, ndr) a Zagabria sarai spesso notato, sia in senso positivo che negativo", dice Filip.
Petra Franov, 37 anni, di Osijek, ha iniziato a viaggiare in Serbia nei fine settimana circa dieci anni fa. Ha poi incontrato il suo attuale ragazzo e si è poi trasferita a Novi Sad e successivamente a Subotica. "Ho studiato economia, ho fatto tutto nella mia vita professionale. Ma quando sono arrivata in Serbia ho avuto difficoltà a trovare un lavoro e ho fatto quello che pensavo fosse accettabile e in linea con le mie convinzioni. I datori di lavoro non vogliono impegnarsi nell’assumere stranieri, in parte a causa dell'alto tasso di disoccupazione in Serbia e delle complicate pratiche burocratiche, che in realtà non sono così complicate. Oggi seguo il mio percorso creativo, sono indipendente, ho dei progetti, faccio molto volontariato".
La prova che, per amore, tutto è possibile
Petra aggiunge che i serbi devono mettere in campo mille risorse a causa dei bassi salari. Tuttavia tutto questo fa fiorire l'economia grigia. Per quanto riguarda la sua vita a Novi Sad e Subotica, la trentenne ne parla con grande calore. "Le persone sono fantastiche. Quando sentono il mio accento mi chiedono da dove vengo e sono contenti. Gli anziani guardano con nostalgia ai tempi della Jugoslavia. Ho vissuto situazioni in cui le persone si sono scusate con me per strada per qualcosa, non so nemmeno cosa, ma è come se portassero il peso di un'intera nazione con loro a causa del passato. Le persone sono sempre gentili, calde e aperte. In dieci anni [in Serbia], mi hanno rubato la targa una volta, tutto qui", riassume Petra.
Quando le è stato chiesto se ha mai avuto paura di attraversare il confine, o se si è pentita della sua decisione di vivere in Serbia, Petra dice di non aver mai avuto tali dubbi. "Non sono stata cresciuta con una mentalità nazionalista, nemmeno durante la guerra. Quando ero bambina ho perso mio padre e ho vissuto un trauma. Tutta questa paura e questo trauma non ha niente a che vedere con la nazionalità, ma con quello che una persona si porta dentro. È odio ingiustificato, lavaggio del cervello e governare persone come se fossero pecore. Sono molto grata di non essere stata educato in questo modo. Penso di essere la prova che tutto è possibile attraverso l'amore".
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