Il presidente serbo Aleksandar Vučić si trova nella situazione di dover dare risposte a Washington e Bruxelles sulla questione del Kosovo. Ma davanti ha due opzioni che potrebbero entrambe danneggiarlo politicamente
Le previsioni secondo cui le massicce proteste contro il governo serbo, iniziate più di due mesi fa, con il passare del tempo avrebbero perso di intensità si sono rivelate infondate, e nel frattempo anche i ferventi oppositori dei negoziati con il Kosovo sono scesi nelle strade delle città serbe per protestare, accusando il governo di “tradimento”.
Così potrebbe essere descritta in breve l’attuale situazione in Serbia, in cui il presidente Aleksandar Vučić si trova costretto ad aspettare l’eventuale proseguimento dei negoziati sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, temendo, non senza motivo, che ogni eventuale concessione nei confronti di Pristina possa danneggiarlo politicamente.
Da qualche tempo si specula ampiamente sul fatto che, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica, si stiano portando a termine le presunte trattative su una demarcazione territoriale tra Serbia e Kosovo.
La scorsa settimana di questo argomento si è occupato anche il quotidiano tedesco Frankfurter Rundschau, secondo cui l’Unione europea e gli Stati Uniti sarebbero disposti ad appoggiare un eventuale scambio di territori tra Serbia e Kosovo, e il prossimo 12 giugno a Washington dovrebbe essere firmato un accordo sulla ridefinizione del confine tra i due paesi.
L’accordo, stando al quotidiano tedesco, sarebbe costituito da 17 punti e prevedrebbe che alcuni villaggi a maggioranza albanese nel sud della Serbia vengano annessi al Kosovo, mentre la città di Mitrovica, situata al nord del Kosovo, dovrebbe ottenere uno status speciale. Gli analisti di Belgrado interpretano queste speculazioni come un segnale di impazienza da parte di Bruxelles e Washington.
È sempre più forte l’impressione che il presidente serbo si trovi schiacciato tra la crescente resistenza interna ad un accordo con Pristina e le aspettative dei principali partner internazionali della Serbia, che si aspettano da Vučić un concreto passo avanti nei negoziati con il Kosovo.
Vučić ha esplicitamente smentito l’esistenza dell’accordo di cui parla Frankfurter Rundschau (citato anche da alcuni media kosovari), ma le speculazioni sono già trapelate e continueranno ad essere oggetto di discussioni nelle prossime settimane e mesi, a prescindere dal fatto che siano basate su informazioni comprovate o che facciano semplicemente parte di un gioco politico. Questa situazione gioca a favore dell’opposizione serba, che cerca di sfruttarla per attaccare il governo.
A corroborare ulteriormente le speculazioni su un’imminente demarcazione territoriale tra Serbia e Kosovo è una dichiarazione rilasciata la scorsa settimana dal ministro degli Esteri serbo Ivica Dačić, secondo cui la proposta ufficiale di Belgrado per risolvere la questione del Kosovo è una ridefinizione del confine tra i due paesi.
Dopo essere stato fortemente criticato dall’opposizione, ma anche dal ministro per l’Innovazione e lo Sviluppo tecnologico Nenad Popović, noto per le sue posizioni filorusse, Dačić ha cercato di attenuare il peso delle sue affermazioni, dicendo che la ridefinzione del confine è una delle idee di cui si discute, ma che comunque è in linea con la “posizione ufficiale” di Belgrado.
Il presidente Vučić si è astenuto dal reagire alle affermazioni di Dačić, e questo induce a pensare che non si sia trattato di un “lapsus” da parte del ministro degli Esteri e che in seno alla coalizione di governo si stia seriamente discutendo di un piano che comprende una ridefinizione del confine con il Kosovo.
Russia
La scorsa settimana il portale russo Sputnik ha pubblicato un’intervista con Fyodor Lukyanov, caporedattore della rivista Russia in Global Affairs e membro del Valdai International Discussion Club, il quale ha in parte relativizzato il sostegno di Mosca al governo di Belgrado.
“La Russia non ha nessun grande progetto in cui potrebbe coinvolgere la Serbia, o ad esempio la Bosnia Erzegovina, e non lo avrà perché i Balcani non confinano con la Russia. I Balcani sono circondati e in parte fanno parte dell’Unione europea e della Nato, e questo non cambierà. L’Unione europea non scomparirà, anche se subirà cambiamenti”, ha affermato Lukyanov.
Stando alle sue parole, è completamente irreale “l’idea, radicata nella testa di molti cittadini serbi, secondo cui sarebbe in corso una battaglia tra due scenari del futuro”, uno in cui la Serbia fa parte dell’Occidente e l’altro in cui è strettamente legata alla Russia.
“Non c’è nessuna battaglia. C’è qualcos’altro: un insieme di emozioni molto complesse da parte russa, a partire dalle simpatie, assolutamente sincere, che affondano le radici nel passato e che non svaniranno, e questo naturalmente comporta una certa responsabilità da parte della Russia”, ha spiegato Lukyanov.
Gli analisti di Belgrado ritengono che con questa intervista pubblicata sul portale Sputnik, considerato una sorta di portavoce del governo russo, si sia voluto mandare un messaggio alle autorità di Belgrado di iniziare a considerare più seriamente la realtà.
Secondo questa interpretazione, Mosca ha voluto dimostrare al presidente Vučić di essere consapevole delle “emozioni del passato” e di “una certa responsabilità della Russia” per la situazione nei Balcani, ma di non avere alcuna intenzione né tanto meno la possibilità di fornire un sostegno incondizionato alla Serbia.
Questo è un ulteriore segnale (piuttosto chiaro) del fatto che Vučić, qualora dovesse rimanere insoddisfatto dall’atteggiamento di Bruxelles e Washington, non potrebbe così facilmente “passare dall’altra parte” con lo scopo di avvicinare ulteriormente la Serbia alla Russia.
Questo scenario è poco probabile non perché Mosca non abbia alcun interesse o non vorrebbe trasformare la Serbia in una provincia della Russia, ma perché non ha la capacità di sostenere appieno tale svolta. In parole povere, da parte russa ci sono emozioni, c’è l’appoggio, ma non c’è la disponibilità a sostenere incondizionatamente la Serbia.
Il summenzionato scontro tra Dačić e il ministro Popović appare alquanto strano perché entrambi sono considerati vicini a Mosca, ma probabilmente non avrà grandi conseguenze.
Dačić ha un maggiore peso politico, non solo perché il suo Partito socialista serbo (SPS) è sufficientemente forte per superare la soglia di sbarramento ma anche perché i membri del SPS ricoprono posizioni chiave nel settore energetico, e la Russia detiene un vero e proprio monopolio sulle risorse di gas e petrolio in Serbia.
Quindi, se in Serbia dovessero succedere forti turbolenze politiche, con conseguente caduta del governo ed elezioni anticipate, l’SPS sicuramente entrerebbe in parlamento e sarebbe un potenziale partner in una futura coalizione di governo, e questo è molto importante per la Russia sia dal punto di vista economico che politico.
Prospettive
Contemporaneamente, si fanno sempre più numerosi gli indizi che suggeriscono che il presidente Vučić e il suo Partito progressista serbo (SNS) stiano lentamente perdendo lo status di principale interlocutore di Bruxelles e Washington sulla scena politica serba.
La scorsa settimana i due leader dell’Alleanza per la Serbia (SZS, la coalizione dei partiti di opposizione), Dragan Đilas e Vuk Jeremić, sono stati a Berlino. Non ci sono informazioni ufficiali su questa visita, ma è indubbio che Đilas e Jeremić si sono incontrati con alcuni esponenti del governo tedesco.
Anche il relatore del Parlamento europeo per la Serbia David McAllister ha incontrato gli esponenti dell’opposizione in occasione della sua recente visita a Belgrado, mentre Vuk Jeremić ha in programma una visita a Washington.
Fino a pochi anni fa un’attività così intensa dell’opposizione serba a livello internazionale sarebbe stata difficilmente immaginabile, dal momento che l’attenzione della comunità internazionale era interamente focalizzata su Vučić e sulla coalizione di governo.
L’impressione è che Bruxelles e Washington ora vogliano rafforzare i contatti con i partiti di opposizione per due motivi. Il primo riguarda la crescente resistenza all’interno della società serba contro il regime di Vučić, espressa attraverso massicce e ostinate proteste a Belgrado e in altre città serbe. Il secondo motivo è che Vučić nei sette anni – quanti ne sono passati da quando è arrivato al potere – durante i quali ha quasi sempre goduto di una netta maggioranza parlamentare, non è riuscito a portare a termine i negoziati sulla normalizzazione delle relazioni con il Kosovo.
Vučić certamente gode ancora del sostegno dell’Occidente, per essersi impegnato a raggiungere un accordo con Pristina, ma questo sostegno non è più così forte come una volta. Il presidente serbo non ha ancora preparato il terreno per l’attuazione di un eventuale accordo con il Kosovo.
Nella costituzione serba il Kosovo è definito come parte integrante della Serbia, per cui Vučić, se dovesse raggiungere un accordo con Pristina su una demarcazione territoriale tra Serbia e Kosovo, violerebbe la costituzione, che negli ultimi sette anni non è riuscito a modificare.
Oggi in Serbia le circostanze politiche sono molto meno favorevoli per eventuali modifiche costituzionali di quanto non lo fossero qualche anno fa, perché l’opposizione si sta rafforzando sull’onda delle proteste, mentre gli ultranazionalisti si fanno sentire con sempre maggiore insistenza.
Dal momento che sta diventando sempre più chiaro che “l’ombrello russo” non può offrirgli un’adeguata protezione, Vučić dovrà trovare una soluzione che sia accettabile per Bruxelles e Washington, ma anche per il Kosovo.
Quindi, dovrà scegliere tra due opzioni: intraprendere la strada, politicamente rischiosa, di una riforma costituzionale, oppure cercare di risolvere la questione prescindendo dalla costituzione, un’opzione altrettanto rischiosa.
Date queste premesse, Vučić è senz’altro preoccupato di come si comporteranno le potenze occidentali nei suoi confronti se e quando sarà raggiunto e sottoscritto un accordo sulla normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina, che probabilmente aprirà la strada all’adesione del Kosovo alle Nazioni Unite.
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