Vi sono migranti che, alla frontiera tra Serbia e Croazia, rifiutano i centri collettivi e affrontano condizioni di vita estreme pur di continuare il proprio viaggio verso l'Unione europea
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 23 novembre 2017)
Nella notte buia della periferia di Šid, cittadina posta al confine con la Croazia, una decina di persone tentano di riscaldarsi attorno ad un fuoco, ai bordi di un terreno incolto. Attendono un pasto caldo, distribuito ogni sera da una Ong. Qualcuno aggiunge dei rami al fuoco che pian piano perdeva vigore. “Accomodatevi pure, siete i benvenuti!”, dice uno di loro ridendo, maneggiando un mattone scheggiato come se fosse una sedia.
Le condizioni in cui vivono - alcuni bloccati qui da più di un anno - circa 150 rifugiati non sono invidiabili. La prima neve non è ancora caduta ma la sera le temperature nella campagna serba s'avvicinano già allo zero. Facendo rischiare l'assideramento a questi rifugiati in gran parte originari di Algeria, Afghanistan, Iraq e Marocco e che qui tentano di passare il confine verso la Croazia.
In Serbia risiedono attualmente circa 5000 rifugiati, la maggior parte dei quali alloggiati presso le strutture predisposte dal governo. Vi sarebbero ancora dei posti liberi ma le persone presenti qui a Šid non vogliono andarci. Alcuni di loro temono di finire poi rinchiusi in questi campi, senza libertà di movimento, altri invece ritengono che, a meno di non essere o siriani o iracheni, sia impossibile ottenere diritto d'asilo: e quindi un soggiorno nel campo non farebbe che allungare il loro viaggio verso l'Europa occidentale. Sia quel che sia, preferiscono stare vicini alla frontiera con l'Unione europea.
E' per questo che nonostante l'inverno che si avvicina, hanno scelto di vivere all'esterno dei campi ufficiali, in tende di fortuna montate nella sterpaglia vicino ai binari. Un riparo quasi inutile rispetto al freddo e all'umidità invernale. A tutto questo si aggiunge il problema dell'alimentazione e dell'igiene personale, rendendoli ancora più vulnerabili.
“Alcuni qui non fanno una doccia da settimane”, spiega Marwan, algerino di 26 anni, bloccato ormai da tre mesi qui a Šid. Questo nonostante un sistema ingegnoso messo in opera dai volontari: una serie di 4 tende senza pavimento all'interno delle quali viene introdotto un tubo collegato ad una cisterna di acqua calda su un furgoncino.
“No name kitchen”
Per i rifugiati, le giornate a Šid si susseguono tutte uguali, ritmate dai pasti, distribuiti alle 11 ed alle 6 del pomeriggio da una ong spagnola, No name kitchen . Questi giovani volontari sono i soli, assieme ad un gruppo di ragazzi tedeschi che fornisce loro con un generatore un minimo di energia elettrica per ricaricare i cellulari – i soli che danno loro un po' di assistenza. La serra, a volte, passano con loro alcune ore e allora canti e un po' di musica risuonano tra le mura della fabbrica abbandonata vicino alla quale hanno trovato riparo. Un passatempo che permette loro di dimenticare almeno un po' fame e freddo.
Alcuni di loro testimoniano di una “grande riconoscenza” nei confronti dei volontari. Altri si lamentano delle porzioni minime dei pasti. Un po' di pane e un frutto al mattino, un piatto caldo la sera: non a sufficienza per tutta la giornata. l'associazione No name Kitchen spiega che si finanzia solo con donazioni di privati e che non riceve alcun sostegno finanziario né dagli stati e neppure dalle istituzioni europee.
La violenza della polizia
I pasti sono anche un momento di convivialità, nonostante l'ambientazione tetra. Tra un piatto di lenticchie e un bicchiere di tè alcuni raccontano della violenza della polizia croata sulle persone catturate al di là del confine: una cicatrice sul collo, un ematoma alla gamba, la foto di un viso insanguinato sullo schermo di un telefonino. I poliziotti vengono anche accusati di racket e della distruzione dei telefonini.
“La polizia croata ci maltratta”, denuncia un ragazzo “Perché?”. In molti si chiedono le ragioni di questa chiusura della frontiera croata. Per loro infatti è colpa della Croazia e non della politica migratoria dell'Ue se sono bloccati a Šid. E la polizia serba? Non li disturba più di tanto anche perché non dormono all'aperto in città: occorre salvare le apparenze.
Come va, curdo?
La vita a Šid per i suoi abitanti sembra procedere ordinaria anche se “tutto è cambiato” in questi ultimi due anni. Il portiere di un albergo presso la stazione dei treni si dice esasperato: capisce le ragioni che portano i migranti in questa piccola città di provincia ma si lamenta del disordine causato dal transito di migliaia di persone. Su alcuni edifici della città, tra i messaggi di sostegno al leader dell'estrema destra serba Vojislav Šešelj, qualcuno ha scritto «Fuck refugees, Fuck ISIS».
Nel ristorante dell'hotel ogni giorno vi è un gruppo di rifugiati che si riscaldano un attimo e approfittano del wifi per contattare i propri conoscenti. I camerieri a volte borbottano ma sono in generale bendisposti. Uno di loro spiega ad un gruppo di algerini seduti ad un tavolo che “il serbo, il croato e il bosniaco sono la stessa lingua” prima di tentare di insegnare loro a dire “hvala”, “grazie”.
Un altro scherza con un uomo originario della Turchia: “Come va curdo?”, gli chiede. “Viene dal Kurdistan. Sono sei mesi che è qui, ha tentato di passare il confine una decina di volte fallendo sempre”, ci spiega. “E' qui al ristorante dell'hotel ogni giorno - racconta il cameriere – mi ha detto di non farcela più a tentare di attraversare la frontiera, di essersi arreso”. “Ma se resta in Serbia che farà?” “Ah, questo non lo so...”.
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