L’unica ricchezza di Topli Do, villaggio in via di spopolamento tra i boschi della Stara Planina, in Serbia, sono i suoi torrenti impetuosi. Quando nel 2019 una centralina idroelettrica stava per portarglieli via, i pochi abitanti rimasti non hanno esitato a erigere delle barricate. Da allora il villaggio vive un’insperata rinascita
Al suono della frula, il flauto dei pastori dei Balcani, mano nella mano, danza un piccolo cerchio di donne e uomini. I corpi saltellano rigidi al ritmo incalzante, mentre i piedi si muovono all’unisono, o quasi: non tutti ricordano i passi del kolo, la danza della festa, in questa sua versione delle estremità montuose e ormai spopolate della Serbia. Quasi tutti, però, ridono: i ragazzi e le ragazze che copiano dagli anziani, e gli anziani, all’inizio arrugginiti e imbarazzati, prima di ritrovare un’agilità che credevano perduta. Intorno al cerchio dei danzatori una folla più numerosa batte le mani, chiacchiera urlandosi nelle orecchie, scatta fotografie. Dei bambini tormentano bonariamente un asino che, impassibile, divora una balla di fieno. Dietro, sul muro scrostato, nuova di zecca, la targa "Piazza dei fiumi liberi". E questa è la Festa dei Fiumi e delle Montagne libere: ormai è la terza edizione, la prima dopo la pandemia.
La maggior parte è arrivata da Pirot, il capoluogo della regione, qualcuno da Niš e Belgrado, e tanti altri dalle valli, più o meno disperse, in cui ci si batte contro le nuove centraline elettriche in progetto ovunque nel paese. Una "febbre dell’oro blu" che colpisce tutti i Balcani Occidentali, alimentata più dai generosi sussidi che dalla produzione energetica, minima, al prezzo della distruzione di alcuni dei corsi d'acqua più integri d'Europa. Qualcuno è venuto dalla Bosnia, qualcuno dalla Croazia, c'è persino una piccola rappresentanza dalla Polonia, tre uomini che lasciano generose impronte sulla terra battuta con i vecchi, enormi zoccoli neri, marca "Tigar", vecchia gloria della manifattura di Pirot.
Ma il gruppo più significativo è salito da Pančevo, città adagiata sul Danubio che da tre, quattro generazioni ospita la diaspora di Topli Do. Sono arrivati presto, nel pomeriggio, a visitare la casa dei padri, dei nonni o dei ricordi d’infanzia. E non solo la casa: attraversato il ponte, percorsa la strada di terra tra le case vuote e le poche piene, l’emporio, la vecchia sede della fattoria collettiva, si sono diretti al torrente, nel punto dove si toccano due piscine naturali dal fondo rosso come un mattone d’argilla. Sono rimasti per ore a gustarsi il fresco dell’acqua viva, tuffandosi o sonnecchiando immobili nel sole cocente, al centro del cerchio delle montagne tutt'intorno. La "Vecchia Montagna" si innalza un poco alla volta, ricoperta dalle boscaglie che rimpiazzano i pascoli di un tempo, poi da sterminate faggete, per aprirsi infine alle praterie sferzate dal vento delle alte quote: il Midžor, la massima vetta di questo lato della Serbia, e oltre, dopo il confine con la Bulgaria, l’intera catena, i monti Balcani. E ovunque, al sole dei pascoli o infossati in canyon nascosti, li riga una rete fittissima di torrenti e cascate.
"Vecchia montagna, perché piangi?/ Ti hanno seccato i boschi, ti si è prosciugata l’acqua?" recita una canzone tradizionale nel dialetto degli šopi, i montanaridi qui, a cavallo tra Serbia, Bulgaria e Macedonia del Nord, con cui musicisti hanno aperto la festa. Nel canto le lacrime sono versate per i ribelli che si rifugiavano sulle montagne al tempo dei turchi, ma ormai le parole assumono un significato nuovo. Se il giorno della «battaglia», il 7 ottobre 2019, le cose fossero andate diversamente, molte di quelle acque sarebbero rinchiuse in chilometri di condotte forzate.
La battaglia
Davanti a una tazza di caffè turco nella casa che fu di suo nonno, Stefan Petrović indica dei punti sulla mappa. "Topli Do è qui. Qui c’è la strada che sale da Pirot, e qui, sul ponte, era stata eretta una barricata. In realtà la località più vicina è dall'altra parte, Babin Zub, il ‘dente della nonna’, che ospita una stazione sciistica, solo che non c'è la strada, solo una pista sterrata. Anche lì era stato eretto uno sbarramento".
Dragan Josić, l'investitore, aveva fretta: il permesso per la centralina sul fiume Rekitska, a lungo rinviata per le proteste, sarebbe scaduto dopo pochi giorni. Il presidio, infatti, era iniziato da settimane, e sarebbe durato ancora fino a novembre inoltrato, ben dopo il giorno della battaglia. Il bivacco era all'imbocco del ponte, davanti a un falò perennemente acceso. La protesta non aveva capi veri e propri, ma sul campo Miljan Stojanović, tra i primi a scommettere che le bellezze del luogo avrebbero potuto salvare il villaggio morente grazie al turismo sostenibile, era sempre in prima fila. Da Belgrado Srdjan Cvetković, uno storico dal sorriso smagliante e un basco perennemente calato in testa, forniva il supporto teorico.
"Josić sperava di cogliere il villaggio di sorpresa. Partì prima dell'alba, da Babin Zub, con venti gorilla armati di motoseghe. Speravano di demolire le barricate prima che gli attivisti si organizzassero e aprire direttamente il cantiere. A poca distanza stava già arrivando un camion con i cartelli di avvio lavori e tutto il necessario".
Ma la sorpresa non era riuscita. A Topli Do avevano dato l’allarme, e in pochi minuti da Pirot era partito un piccolo corteo di auto zeppe di attivisti su tutte le furie. Nel frattempo, dalle barricate, l’imperativo era guadagnare tempo. È difficile ricostruire gli eventi della giornata con esattezza: pare che gli uomini dell’investitore abbiano provato a farsi largo con degli spray al peperoncino, dopodiché la gente del posto iniziò a raccogliere pietre. Quello che è certo è che, poco dopo, entrambe le parti si combattevano ferocemente a colpi di sassi e bastoni. E alla fine gli abitanti del villaggio ebbero la meglio. Mentre l’imprenditore, ferito anche lui, negoziava la resa, i suoi uomini si disperdevano nei boschi, inseguiti dagli abitanti furibondi, lasciandosi indietro il camion.
"I gorilla erano sotto shock. Come altro ti puoi sentire se hai davanti una nonna che ti prende a sassate?".
L’indomani Josić avrebbe dichiarato ai media che era stato vittima di un "linciaggio da parte di un gruppo di bulli" e che non sarebbe tornato mai più. Ma per gli ambientalisti di tutta la Serbia la vittoria di Topli Do era un atto di eroismo dal significato molto più ampio che fermare una singola centralina sulla Vecchia Montagna.
Testardi e disordinati
La mattina del secondo giorno di festa, una piccola folla di visitatori assonnati gironzola intorno a un vecchio TAM 150, camion dell'esercito jugoslavo adattato a fuoristrada, parcheggiato davanti al ponte. Gli organizzatori invitano i partecipanti all'escursione per le cascate di Gruja e Jerisor a sistemarsi sul cassone. Li osservano salire, sempre più perplessi: è evidente che sono troppi, forse il doppio dei venti per cui il mezzo è stato progettato. Ma in fondo, che problema c'è? Quando il portellone viene chiuso il gruppo, abbarbicato su due lunghe assi di legno che non cadono solo perché non ne avrebbero lo spazio, ritrova una nuova stabilità. Così il camion si inerpica sbuffando per sentieri chiaramente pensati per i piedi o per gli zoccoli dei muli, penetrando nel fitto del bosco. La guida sta in piedi a torso nudo, attento a schivare le fronde e gridare quando un ramo più grosso minaccia di colpire tutti gli altri, che si accucciano e riparano il viso. Si ride a crepapelle, non senza una certa tensione nei tratti in cui il bosco si apre a sorpresa davanti a un dirupo. Quando è impossibile proseguire i gitanti, mezzi ricoperti di foglie, aghi di pino e ragnatele, si incamminano nella faggeta. Finalmente, dopo una camminata su una costa senza sentiero, appaiono le cascate. Sono diverse da tutte le altre, ma anche familiari, ed è difficile dire perché, o forse è facilissimo: sono simili a torrenti e cascate come normalmente si immaginano, liberi, e che però mai si vedono, inchiodati da briglie, argini e dighe, o semplicemente dal loro ruolo di sfondo di cartolina.
La seconda notte di festa si riversa sul villaggio un lunghissimo temporale estivo. La folla, raccolta sotto un tendone troppo piccolo, assiste alla premiazione di un concorso fotografico. Ma l'inaspettato arriva dopo, quando, ormai inutilizzabili gli spazi esterni, ci si raccoglie in una sala coperta di proprietà del comune. Dalle casse accese, per ore, fuoriescono tutte le vecchie glorie del pop jugoslavo, e tre generazioni ballano per ore.
"I fiumi scorrono più velocemente nelle aree montane, dove la popolazione è in via di esaurimento e gli abitanti residui vivono di agricoltura e pensioni", ha scritto l’antropologo Ivan Rajković, studioso non senza riserve dei movimenti ambientalisti che percorrono la Serbia, da lui definiti «ecopopulisti». Le centraline, prosegue, "hanno un impatto sulle aree periferiche, sulle popolazioni di confine e sui gruppi esclusi dalle politiche tradizionali". Considerando i fiumi e i loro abitanti non umani come l’ultimo bene comune dopo decenni di capitalismo sfrenato, e una storia molto più lunga di potere amministrato in città cieche ai bisogni delle montagne, i militanti vedrebbero nei fiumi dei "compagni di sofferenza dei contadini anziani, degli urbani senza lavoro e dei loro figli (non) nati, in quanto lasciati senza voce e senza acqua (…). Il movimento grida: prima difendiamo i fiumi, poi facciamo rinascere le montagne". Tutto il contrario, insomma, dell’immagine un po’ snob dell’ambientalismo come espressione dei ceti abbienti e annoiati delle grandi città.
Un'anziana in abiti tradizionali si esibisce, incurante delle casse ad alto volume, nella strofa di un vecchio canto, urlando, seguita da uno scrosciare di applausi. Sulla parete più lunga, tra vecchie foto, campeggia una grande bandiera serba. L'attaccamento ai simboli della nazione si sente nelle sfumature di molti discorsi, una nota insolita per le realtà balcaniche in lotta contro lo "tsunami" delle centraline elettriche. Ma nella sua incarnazione del sud della Serbia, questo movimento di cittadini "appassionati e disordinati, senza alcuna ambizione di diventare partito", come li ha definiti l’attivista e ricercatrice Milica Kocović De Santo, vuole sicuramente molte cose, a volte in contraddizione tra loro. Eppure questi movimenti - raccolti nella sigla Odbranimo reke Stare planine (Difendiamo i fiumi di Stara Planina), come il gruppo Facebook , animato dal fotografo Milan Simonović, che raccoglie ormai 150 mila iscritti, molto più del totale degli abitanti della zona - hanno ottenuto risultati che prima sembravano impensabili. Anche se spesso con i metodi non sono andati per il sottile.
Nel 2020, a Rakita, non lontano da Topli Do, hanno liberato il torrente omonimo dalle condotte che lo stavano rinchiudendo a suon di picconate, e lo stesso avevano fatto nel 2018 su un altro rio, la Rudinjska. Con meno rumore ma con un risultato altrettanto sorprendente, gli attivisti insieme a professori universitari e studenti di architettura hanno invece preso in gestione la Casa della Cultura del villaggio di Dojkinci, allora fatiscente, dandole nuova vita. Più volte il gruppo ha riempito le strade di Belgrado, diventando, insieme ai gruppi che si oppongono alla paventata apertura di nuove miniere di litio nella zona di Jadar, tra i movimenti più visibili, non solo ambientali, della scena politica del paese. Lo stesso presidente Vučić, quasi l’arcinemico degli attivisti, ha finito per fare una promessa - è ancora troppo presto per dire quanto realistica - di vietare la costruzione di centraline nelle aree protette.
Lenta rinascita
Dopo la presentazione di un libro sulla storia di Topli Do, lunghi pranzi e cene e anche un funerale, la strada di terra rossa che taglia il villaggio è deserta. Tutto il villaggio si è spostato in un campo al limitare del villaggio, dove la festa si conclude con una partita di calcio. Alcuni uomini fanno il tifo da lontano, a petto nudo, la maglia arrotolata sulla testa per ripararsi dal sole d'agosto.
Passeggiando nel villaggio vuoto, Stefan e Monika, un'altra giovane cresciuta a Pančevo, mostrano la vecchia scuola, ormai con il tetto sfondato, in cui vecchi murales si scoloriscono rapidamente. Un gruppo di attivisti si è accampato in quella che doveva essere un'aula, verso il tetto inesistente sale il fumo di un falò.
Di un'altra costruzione restano solo i muri. Apparteneva a parenti di Stefan. "Immagina più di venti persone, vecchi, donne e un mucchio di bambini, a vivere tutti in una casa così piccola. Ci riesci? E questo vale per tutte le case". Anche se la memoria del villaggio era rimasta sempre viva nella sua famiglia, Stefan, come già suo padre, è nato in pianura. "Sin da bambino sentivo raccontare tante storie sulla Stara Planina. Ma quando mio nonno è morto ormai ero un adolescente, e non ci ero ancora mai stato". Il momento sarebbe arrivato anni dopo quando, ormai grande, era diventato un appassionato di montagna. "Io, mia sorella e una sua amica volevamo salire sul monte Midžor, ed era l’occasione buona". L’idea era di campeggiare, ma appena oltrepassato il ponte un uomo che non avevano mai visto gli venne incontro. "Ci disse solo che era nostro parente, o meglio ‘fratello’, e che eravamo suoi ospiti". Da allora non ha più smesso di tornarci, e ora è in prima fila tra gli organizzatori dei festival. In quel periodo, racconta, intorno al 2012, il villaggio era a un passo dalla scomparsa definitiva. "A viverci tutto l'anno c’erano solo otto persone. Non appena l’ultimo abitante fosse morto o emigrato, queste sarebbero diventate solo rovine, un posto 'segreto’ per noi che lo avevamo conosciuto. Se dieci anni fa mi avessero detto che oggi saremmo stati qui a ballare gli avrei dato del pazzo".
Eppure a volte anche i pazzi hanno ragione. Quando era arrivata da Prokuplije, cittadina vicino al confine con il Kosovo, a dare una mano durante il presidio, l'attivista Snežana Ilić era stata "folgorata dall''energia': della natura, delle persone e di ogni singola roccia. Io e molti di noi che venivamo da fuori capimmo da subito che saremmo tornati anche dopo la fine del presidio. Fondammo l’organizzazione Ja volim Topli Do, 'Io amo Topli Do', con tanto di logo, decidendo di organizzare un evento per celebrare questa vittoria. Non potevamo che dedicarlo alle persone libere, alle montagne e ai fiumi".
Se dopo la battaglia l'attivismo di Topli Do si è orientata verso le manifestazioni artistiche è anche grazie a lei, che ha trovato da subito gli sponsor perfetti, a cavallo tra musica e militanza. "Sono una persona molto persuasiva", sorride. "Quando venni a sapere che Manu Chao avrebbe tenuto un concerto a Niš, che è a 100 km di distanza, capii che sarebbe dovuto venire. Grazie al suo manager, Login, lo incontrammo nel backstage: gli raccontammo la storia, scattammo delle foto insieme con la maglietta con il logo, ma di più non si poteva fare perché aveva altri concerti. Mentre ce ne stavamo andando, però, mi chiamarono dal suo staff: avevano trovato il tempo. E così è arrivato anche lui", racconta, mostrando le foto dell'artista con la chitarra in mano e i piedi immersi nel torrente. Deve aver sentito anche lui la misteriosa energia di Topli Do, perché ci sarebbe venuto ancora, nell'autunno 2022.
La festa, e la partita di calcio, stanno finendo. Sudati e soddisfatti, quasi tutti torneranno alle loro vite quotidiane in città, e il villaggio riprenderà la sua vita silenziosa. Ma qualcuno in più resterà - un escursionista, un turista, un ospite della manciata di letti e case vacanze che timidamente stanno sorgendo intorno al villaggio.
Alcuni hanno deciso di ristrutturare casa, e non sono pochi i ponteggi, le carriole piene di calcinacci e altri segni di una vita che ritorna. Tra questi c'è Alexandar Pantić, insegnante di balli tradizionali in una scuola di musica di Vienna, in prima fila, coi suoi baffi all'insù, nella serata del kolo. Tra qualche anno la casa sarà pronta, e tornerà a vivere tra le montagne dei suoi nonni, con sua moglie e il loro bambino. Il tempo dirà se un festival e una battaglia combattuta a mani nude hanno ridato un futuro al villaggio. Il presente, intanto, è un dono che non era scontato.
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