Colline che si estendono al confine tra Italia e Slovenia, terrazzamenti e sentieri sterrati, luogo ideale del vino. Un’area un tempo divisa dalla Cortina di ferro oggi potrebbe unirsi simbolicamente
Guardando dall’alto le colline che si estendono a nord-ovest di Gorizia, al confine tra Italia e Slovenia, è difficile indovinare dove passi di preciso la linea che separa i due stati. Coperte da dolci terrazzamenti ed attraversate da sentieri sterrati, queste alture, celebri in entrambi i paesi per il vino che producono, portano un nome che è dovuto proprio alla loro forma, smussata dalla lunga azione degli agenti atmosferici: “Collio” ad ovest della frontiera e “Brda” ad est.
Per decenni, questo paesaggio, che prosegue identico da un lato all’altro del confine, è stato tagliato in due dalla Cortina di ferro, che ha lasciato dietro a sé moltissime storie di divisione, diffidenza ed incomunicabilità. Ma nel dicembre del 2007, con l’ingresso della Slovenia nell’area Schengen, i vari valichi di frontiera hanno smesso di funzionare e le sbarre bianche e rosse che regolavano il passaggio sono state rimosse. E ora, una recente iniziativa potrebbe avvicinare ancor più le due anime dell’area, riunendole simbolicamente.
Nel 2015, infatti, diversi comuni del Collio italiano e il municipio di Brda in Slovenia si sono accordati per presentare una candidatura comune dell’area all’Unesco, incontrando il sostegno sia della regione Friuli Venezia Giulia che del governo di Lubiana. Con l’avanzare della procedura, che entro fine anno dovrebbe marcare delle tappe decisive (arrivando all’Unesco a inizio 2019), queste colline separate per molti anni potrebbero vivere una nuova giovinezza, preludio forse di una collaborazione più stretta, anche in materia di produzione vinicola.
Collio e Brda, su due colline diverse
“Si potrebbe fare molto di più in tema di collaborazioni con i nostri vicini italiani, ma per il momento siamo a zero”. Aleš Kristančić, direttore dal 2003 del consorzio Brda, non ha difficoltà a descrivere l’attuale stato delle cose. Vicinissimi, eppure così lontani, i produttori vinicoli sloveni e italiani portano avanti il loro lavoro “separatamente”, come ammettono anche i rappresentanti del Consorzio Collio. “Soltanto all’inizio del 2004, al momento dell’ingresso della Slovenia nell’Ue, avevamo fatto una presentazione congiunta dei vini in piazza Transalpina (la piazza simbolica a cavallo tra i due stati, ndr.)”, ricorda Aleš Kristančić.
Eppure, Collio e Brda hanno molto in comune. Il lato italiano conta un territorio di 7000 ettari, tutti collinari, e dove si produce un totale di oltre 6 milioni di bottiglie l’anno, per la gran parte (86%) bianchi (Pinot Grigio, Sauvignon, Friulano, Ribolla gialla, ecc). Oltre confine, il comune di Brda conta anch’esso una superficie di circa 7000 ettari (di cui 2000 coltivati a vino). Anche qui predominano i vini bianchi (70%), anche se con una piccola differenza: la più grande presenza di rebula/ribolla, che - spiega Kristančić - “preferisce posti più alti, oltre i 100 metri di altitudine, e Brda è in effetti leggermente più in alto rispetto al Collio”.
Anche la vicenda del Tocai (o Tokaj) ha accomunato le due colline sul confine. Fino al 2008, questo era il nome con cui si indicava il vino bianco fermo tipico della zona. Poi, la Commissione europea ha dato ragione all’Ungheria che ha ottenuto l’esclusività nell’uso del termine, avendo sul suo territorio l’unica area vitivinicola con quel nome proprio (la Tokajhegyalija, dove si produce appunto il Tokaj). Collio e Brda hanno allora vissuto una piccola crisi identitaria e sono dovuti correre ai ripari. In Italia, si è deciso di chiamare il Tocai semplicemente “Friulano”, mentre in Slovenia c’è chi ha osato uno “Jakot”, versione speculare del Tokaj perduto.
La lunga strada verso l’Unesco
L’ultima iniziativa germogliata sulle colline italo-slovene potrebbe portare ad una - perlomeno formale - riunificazione dell’area. L’idea della candidatura comune all’Unesco del paesaggio rurale Collio-Brda è nata, già nel 2014, “durante una chiacchierata” tra il sindaco di Brda Franc Mužič e l’allora sindaco di Dolegna (Gorizia) Diego Bernardis, come racconta quest’ultimo oggi consigliere regionale in Friuli Venezia Giulia. Dolegna ha allora fatto da capofila coinvolgendo gli altri 7 comuni interessati dal cosiddetto “Collio storico”.
Cormons, Capriva, Mossa, San Florian, Gorizia, Farra e San Lorenzo hanno firmato nel 2015 un protocollo d’intesa con Brda, Dolegna ad alcune “realtà economiche, come la camera di commercio, alcune fondazioni bancarie, e con l’appoggio della regione Friuli Venezia Giulia”, precisa l’ex assessore regionale alle Risorse agricole e forestali Cristiano Shaurli (in carica fino al maggio 2018). È stato costituito un comitato promozionale al fine di preparare l’ingresso dell’area nella cosiddetta “tentative list” dell’Unesco.
Il nome del sito che si vorrebbe inserire nel patrimonio mondiale dell'umanità è quello di "Paesaggio Rurale Collio (Ita) e Brda (Slo) tra Isonzo e Judrio”, ma ciò che si vuol mettere in evidenza non è solo l’aspetto naturalistico. L’architettura rurale, le tradizioni, le attività agricole (frutta e vino in particolare), così come la commistione di lingue caratterizzano il Collio/Brda da secoli. “Nonostante le guerre, i confini, gli stravolgimenti della storia, l’area ha saputo conservare la sua unicità ed è questo che vogliamo presentare all’Unesco”, spiega l’ex sindaco di Dolegna Diego Bernardis.
Attualmente, in Italia, il lavoro è portato avanti da un comitato tecnico-scientifico (ne esiste un altro parallelo in Slovenia) e “i tre quarti del lavoro sono stati ultimati”, assicura Bernardis. “Entro il 20 dicembre 2018, presenteremo il dossier al ministero della Cultura, poi entro febbraio 2019 la documentazione passerà all’Unesco e se tutto va bene nel 2020 potremmo già essere patrimonio dell’umanità”, prosegue l’ex sindaco, che chiosa: “Per avere più chance di successo, sarà la Slovenia a presentare ufficialmente la candidatura”.
Lavorare insieme
Ma quali potrebbero essere le ricadute concrete dell’iniziativa? Bernardis guarda al Piemonte e all’esperienza del sito “Langhe, Roero e Monferrato”, iscritto all’Unesco nel 2014. “L’incremento medio del flusso turistico è stato del 15–20% in quattro anni e del 30–35% in alcune aree dette core zones”, riferisce il consigliere regionale. Collio e Brda “entrerebbe a far parte di un circuito internazionale di promozione e potrebbe beneficiare di una lunga serie di ricadute positive”, immagina Diego Bernardis.
Per l’ex assessore regionale Cristiano Shaurli, tuttavia, “le ricadute storiche e sociali sono ancora più importanti di quelle economiche”. “Un territorio che per decenni è stato diviso da un confine geopolitico, per la prima volta - e a prescindere da ogni colore politico - ha deciso di lavorare assieme, capendo che il confine era solo artificiale: Collio e Brda per caratteristiche sono lo stesso territorio”, spiega Cristiano Shaurli. Al di là di ciò che dirà l’Unesco, dunque, un passo importante è già stato compiuto sostiene Shaurli.
“Trent’anni fa, o anche solo 15 anni fa, un progetto del genere non sarebbe stato possibile, per via delle tante diffidenze che esistevano”, prosegue l’ex assessore regionale, che aggiunge: “Si tratta di una scelta lungimirante che porterà a grandi soddisfazioni per il territorio”. Insomma, la candidatura Unesco potrebbe essere l’inizio di un percorso transfrontaliero di dialogo e collaborazione, forse anche nel settore che più ha reso celebre l’area nei rispettivi paesi, ovvero quello della produzione del vino.
Verso un’etichetta comune?
Anche nel contesto viti-vinicolo, in effetti, si potrebbe immaginare che lo slancio dato dalla candidatura porti sul lungo termine alla creazione di un’etichetta comune. Ma qui, le complicazioni - avvertono gli addetti ai lavori - sono maggiori. “Certo, il microclima è simile, ma Collio e Brda sono due marchi distinti, con due storie diverse: la denominazione Collio ha 52 anni, mentre il rilancio di Brda è recentissimo, risale ad appena 20 anni fa”, spiega Robert Princic, presidente del Consorzio Collio. Non solo.
Benché facciano entrambi parte dell’Unione europea, Italia e Slovenia hanno regole diverse in quanto a viticoltura. “Da questo lato della frontiera la gestione è molto più burocratica e lo stesso problema esiste con la manodopera. In Slovenia, piantare un vigneto non è un problema, qui tra autorizzazioni e permessi, la strada è molto più lunga”, riassume Princic. Ecco che per il presidente del Consorzio Collio, la collaborazione futura in materia vinicola può sussistere ma “all’interno di una comunità europea che sia davvero più comunitaria”.
Aleks Simčič dell’azienda vinicola Edi Simčič a Dobrovo (Brda) solleva un altro punto. “È molto difficile collaborare correttamente (con gli italiani, ndr.), dal momento che il Collio può utilizzare nel suo marketing il marchio ‘Made in Italy’, che è uno strumento molto forte per la promozione e per le vendite”, ammette Aleks Simčič, che considera comunque “molto interessante” l’iniziativa di una candidatura comune all’Unesco. La strada del vino è dunque più lunga, ma sono in molti a fantasticare sul fatto che si possa un giorno stappare una bottiglia europea, accompagnata dalla dicitura “Made in Collio/Brda”.
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