Un commento di Predrag Matvejevic alla notizia dell'ingresso della Slovenia nell'area dell'euro. Lo scrittore ripercorre le tappe del successo della ex repubblica jugoslava, le sue luci e le ombre
Di Predrag Matvejevic, per Le Courrier des Balkans, 3 gennaio 2007
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Martin Fontasch
La moneta slovena cambia per la terza volta in poco tempo: è passata dal dinaro jugoslavo al tallero e infine all'euro, con i conti pubblici perfettamente in regola. Si tratta, in un certo senso, di un risultato simbolico. Gli altri paesi che sono entrati nell'Unione Europea nel 2004, insieme alla Slovenia, non l'hanno raggiunto, nonostante i considerevoli sforzi.
Allo stesso tempo entrano nell'Unione due paesi balcanici, la Bulgaria e la Romania, entrambi ortodossi. Se li uniamo alla Grecia, dove la Chiesa ortodossa mantiene un ruolo importante, sembra che la frontiera millenaria dello scisma cristiano stia per essere superata. Speriamo che una moderna laicità abbia la meglio sui vecchi tormentoni religiosi ed ideologici. Inoltre, la frontiera bulgara porterà lo spazio dell'Unione fino alle frontiere turche e cambierà, in qualche modo, le prospettive europee. Si tratterà di un ponte gettato verso la Russia, o perlomeno l'Ucraina? La Croazia, meglio preparata economicamente e socialmente dei due ultimi paesi ammessi nell'Unione, non è ancora stata accolta, forse per altri motivi, di cui alcuni probabilmente legati all'attività del Tribunale dell'Aja.
Janez Jansa, Primo ministro di un governo molto più vicino al centro destra che alla sinistra, secondo i modelli europei, è contestato con discrezione da una opposizione piuttosto inefficace, ed è a volte accusato di voler "tudjmanizzare" la Slovenia. Sono messi in evidenza i suoi tentativi di garantirsi un'influenza diretta sulla stampa e specialmente sulla televisione di Stato, e la tendenza a mettere nei posti chiave dell'apparato statale le persone a lui fedeli.
Il Primo ministro ha fatto in questi giorni una sintesi dei risultati del suo mandato, non senza qualche esagerazione. «La situazione economica del Paese non è mai stata migliore» ha affermato Jansa e ha citato alcune cifre, forse discutibili: la crescita economica raggiungerebbe il 5%, l'occupazione l'anno scorso sarebbe aumentata dell'1,5%, la
produttività sarebbe salita del 4,1%. Rimangono, comunque, alcuni
compiti difficili per il suo governo: le riforme sociali attese, ma
finora incompiute o inadeguate; la mancanza di dialogo fra sindacati
e ministero del Lavoro; la difficoltà di ridurre, non solo
apparentemente, la pressione fiscale...
Il successo della "piccola Svizzera slava"
Malgrado tutto, il successo di questa «piccola Svizzera slava»
sembra evidente. Uno sguardo alla storia recente può aiutare a
vedere meglio alcune situazioni e alternative. La guerra balcanica
degli anni Novanta ha sfiorato appena la Slovenia con alcuni giorni
di tensione, mentre nel resto della Federazione jugoslava ha
infierito per anni. Per la neonata Repubblica di Slovenia è
cominciato subito il periodo della transizione. La struttura statale
che Lubiana aveva nella Federazione jugoslava è stata adeguata al
nuovo Stato indipendente, confermato da una propria Costituzione.
Una delle circostanze favorevoli è stato certamente il fatto che ai
posti di vertice sono venuti a trovarsi alcuni politici realisti e
moderati: in primo luogo Milan Kucan e Janez Drnovsek. All'uno e
all'altro sono estranee le forme tradizionali del nazionalismo e del
clericalismo sloveni. Gli uomini politici nuovi, di scarsa
esperienza, non sono riusciti facilmente, fino a qualche tempo fa, a
metterli in ombra.
La nuova Repubblica slovena non ha permesso che, in nome
del «patriottismo», venisse saccheggiato il suo patrimonio
nazionale, come invece è avvenuto in Croazia e in Serbia. Nel
processo di privatizzazione, essa ha mantenuto in piedi le industrie
più redditizie. Agli stranieri sono state vendute soltanto le
imprese e le aziende che il capitale sloveno non era in grado di far
fruttare a sufficienza. La mancanza di trasparenza e i casi di
corruzione sono stati più rari che in qualsiasi altro Paese in
transizione dell'ex Europa dell'Est. Ciononostante - stando ai giudizi
degli esperti in materia - ci sono voluti più di sette anni prima
che la produzione potesse riconquistare il livello raggiunto sul
finire degli anni Novanta. A tale successo ha contribuito in qualche
misura anche la dote che si è portata dietro dalla Jugoslavia, nella
cui Federazione la Slovenia aveva occupato un posto di spicco, e ha
potuto esportare nelle regioni sottosviluppate le merci che non
avrebbero trovato clienti nell'Europa occidentale.
Il rovescio della medaglia
La trasformazione non è stata possibile senza dure prove. Il modo
con cui, per esempio, al momento dell'indipendenza, sono
stati «cancellati» dal registro della cittadinanza slovena i
bosniaci, i croati, i serbi, i macedoni o gli albanesi kosovari, che
in qualità di cittadini della Jugoslavia risiedevano e lavoravano da
vari anni sul territorio sloveno. Si tratta di solo ventimila
cittadini, l'uno per cento della popolazione, che non può in nessun
modo minacciare l'identità della nazione slovena. Queste
scandalose «cancellazioni», incompatibili con i princìpi e i diritti
proclamati dalla cultura politica europea, sono state persino
ribadite con il referendum svoltosi nella primavera del 2004, in cui
si è visto un triste trionfo della xenofobia.
Nemmeno la Ljubljanska
Banka si è dimostrata magnanima, appropriandosi dei risparmi
affidatigli dai clienti dell'intera Jugoslavia, ormai ex. I soldi
sottratti ai risparmiatori privi della cittadinanza slovena non
hanno certamente coperto tutte le spese della transizione, ma hanno
aiutato a ungere le ruote. Un recente incidente - la reazione
durissima contro i rom accompagnata da un commento abbastanza
sgradevole del Primo ministro - è stata accolta da molti vicini come
una nuova prova di xenofobia.
Il tracciato della frontiera slovena con la Croazia sul mare e sulla
terraferma non è stato ancora stabilito ufficialmente da nessuna
delle due parti. Deve essere forse sottoposta a un'istanza
internazionale? Sul piano culturale, fra alcuni scrittori e
intellettuali, rimane, comunque, mi sembra, un pizzico
di «jugonostalgia»: anche perché la letteratura slovena era molto
più tradotta nell'ex Jugoslavia di quanto sia adesso in tutti i
Paesi dell'Unione.
Si può chiedere se sul nuovo confine sloveno si farà una porta
oppure un muro di fronte ai vicini, con i quali si sono vissute
tutta una storia insieme e una resistenza comune al nazifascismo. Su
questa frontiera sarà innalzato un ponte o un bastione? Certamente le regole del gioco, dettate dall'Unione europea, vanno rispettate.
Ma il gioco stesso, nondimeno, non deve essere troppo chiuso, né
crudele.
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