La Slovenia percepisce i profughi come un pericolo, come un problema di ordine pubblico e un’emergenza sanitaria. Nel paese cresce la voglia di muri
L’inferno a Rigonce non c’è più. Non ci sono più profughi disperati, non ci sono poliziotti a cavallo, reparti speciali in tenuta antisommossa ed elicotteri che passano incessantemente. Nel fango autunnale della campagna slovena non ci sono più bambini infreddoliti, genitori esausti seduti su coperte, borsoni e zaini, vecchie signore in abito tradizionale su sedie a rotelle, ma i trattori che arano i campi. La vita sembra essere tornata alla normalità. Gli abitanti della zona non sono però ancora soddisfatti. Vorrebbero veder partire i migranti da una vecchia fabbrica di Dobova, da una tendopoli e dalla stazione di polizia di Brežice.
I timori della Slovenia
Intorno alle strutture ingenti forze di polizia continuano a vigilare attente. Tutto è recintato, non ci si può avvicinare più di tanto. Ogni tanto sale la tensione. I migranti non ne possono più di aspettare. Chiedono di uscire. Uno ci urla oltre la barriera: “Siamo qui da tre giorni, vogliamo andare avanti”. Lente proseguono le procedure burocratiche. Lubiana continua a dire di volerle rispettare, sembra l’unica ad insistere sul rispetto delle regole imposte dal regime di Schengen. La Slovenia ha paura, si sente assediata e anche, forse, non capita: percepisce i profughi come un pericolo, come un problema di ordine pubblico e come un’emergenza sanitaria e non comprende come gli altri possano non vedere tutto questo.
Con una classe politica che non ha fatto altro che alimentare queste paure l’emergenza è stata gestita di conseguenza. Al confine a coordinare la situazione non ha mandato la protezione civile o la Croce rossa, che hanno una certa esperienza con le catastrofi naturali e umanitarie, ma l’esercito e la polizia. L’attenzione per il pericolo di eventuali epidemie è quasi pari a quella per le immondizie lasciate nelle campagne slovene, dalle colonne di disgraziati costretti a marcire a piedi per chilometri e chilometri fino ai centri di identificazione. Sembra inspiegabile che non si siano portati dietro bottigliette di plastica vuote, scatolette, vecchi indumenti, coperte e sacchetti di plastica. Ora si sta ripulendo tutto e l’esercito sta disinfettando la zona. Le televisioni continuano a tenere i riflettori puntati sulla situazione sanitaria dei migranti. Si parla con preoccupazione delle infezioni virali che li colpiscono (un modo altisonante di chiamare il raffreddore) e delle conseguenze che potrebbero esserci per gli sloveni. Sta di fatto che anche chi sta a debita distanza dai migranti porta guanti e mascherine, non si sa mai.
Segnali di miglioramento
Le cose, fortunatamente, negli ultimi giorni sono migliorate. Pare che Slovenia e Croazia abbiano trovato un’intesa. Per farlo è stato necessario un vertice europeo: ora Zagabria comunica a Lubiana l’arrivo dei treni e la Slovenia non pone ostacoli all’entrata. I migranti arrivano alla stazione slovena di Dobova, a due passi da Rigonce, da lì, gran parte di essi, vengono fatti passare su treni sloveni e portati direttamente a Šentilj, dove si espletano le procedure burocratiche. Decisamente molto meglio che finire rinchiusi nei campi della zona. Arrivati a destinazione i convogli potrebbero proseguire verso la Germania, l’Austria è a due passi, ma si fermano alla stazione. I profughi, scortati dalla polizia, fanno un chilometro a piedi fino ad un grande centro d’accoglienza che finisce dove inizia l’Austria. Ad attenderli ci sono i militari con i loro fucili mitragliatori.
I migranti, che hanno viaggiato in treno, praticamente dal confine serbo, non sembrano particolarmente provati. Vengono fatti passare lentamente nel campo. Un sottoufficiale si sgola per farli mettere in fila per cinque: quando l’ultima linea è completata, la prima, la seconda e la terza sono un tutt’uno, il soldato sloveno comunque è tenace e alla fine ci riesce. Una volta entrati ad attenderli ci sono tende riscaldate, bagni, docce, cibo, indumenti ed assistenza medica. Il campo comincia a riempirsi in fretta, arriva una lunga fila di autobus, un altro treno potrebbe essere lì a momenti.
Verso l’Austria e la Germania
Il valico di confine di Šentilj è chiuso al traffico regolare. I profughi vengono mandati verso l’Austria a scaglioni, sembra in accordo con gli austriaci. Li fanno andare in un recinto, all’ingresso altri due militari con il mitra. Entrano nella terra di nessuno. Rispetto a Rigonce in fondo non c’è molta differenza. Non c’è nulla, nemmeno un bagno. Qualcuno ha piantato le tende. Si ferma un furgoncino carico di pizze. I migranti fanno a gara per acquistarne una, brandendo banconote da 10 e 20 euro oltre un muretto.
Il confine austriaco è difeso da solide transenne. Non è il muro di Orban, ma sembra un suo surrogato. L’obiettivo di un fotografo cattura un soldato austriaco che tira una banana oltre il recinto verso una serie di mani protese. Vienna fa passare i profughi con lentezza. Dall’altra parte un campo attrezzatissimo, altre transenne da passare per proseguire il viaggio e altro militare urlante che tenta di far mettere i profughi in due file. Gli autobus arrivano piano, molto piano. I migranti salgono e partono direttamente verso il confine tedesco. Il ritmo è dettato dalla capacità di accoglienza della Germania.
A tutti è chiaro che se Berlino dovesse chiudere scatenerebbe una reazione a catena. L’Austria ha annunciato barriere al confine sloveno, gli ungheresi avevano già fatto le prove alcune settimane fa, mettendo alla frontiera il filo spinato, rimosso dopo pochi giorni. Lubiana sembra pronta a fare altrettanto con la Croazia. Nel paese si respira sempre più forte la voglia di muri. Lo chiede a gran voce il centrodestra, che accusa il governo di essere pesantemente in ritardo, e sembra volerlo anche l’esecutivo che non aspetta altro che un pretesto plausibile per innalzare la rete.
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