Domenica 11 luglio, con una maggioranza schiacciante - ed un'alta affluenza alle urne - gli sloveni hanno respinto la nuova legge sull’acqua, che avrebbe reso più facile costruire lungo le sponde dei fiumi e sulle coste. Una sconfitta pesante per il premier di destra Janez Janša
Con quasi 700 mila voti contrari e poco più di 100 mila favorevoli, gli sloveni hanno detto no alla nuova legge sull’acqua del governo Janša. Al referendum Za pitno vodo (‘Per l’acqua potabile’, come è stato battezzato dagli ambientalisti che l’hanno proposto) dello scorso 11 luglio ha partecipato il 46% degli aventi diritto, più del doppio del quorum previsto per questo tipo di consultazione. Un risultato quasi eccezionale in un paese caratterizzato da anni di scarsa affluenza alle urne, che mette in seria difficoltà l’esecutivo del paese proprio all’inizio del suo semestre di presidenza al Consiglio europeo.
Il referendum pendeva su alcune modifiche alla legge che tutela le risorse idriche del paese, approvate dal parlamento alla fine di marzo. Il passaggio più contestato prevedeva la possibilità di costruire ‘opere a uso pubblico’ in prossimità delle sponde dei corsi d’acqua e delle coste, in zone dove finora era prevista una salvaguardia pressoché assoluta.
Gli emendamenti erano stati approvati con una procedura abbreviata, mentre le modifiche più sostanziali erano state inserite dopo il decorrere delle due settimane riservate alla discussione pubblica.
Una mobilitazione allargata
Quando la raccolta firme è stata lanciata nello scorso aprile, forse in pochi avrebbero scommesso in un successo degli ambientalisti. Con la pandemia che imperversava e le sue pesantissime ripercussioni economiche, gli sloveni sembravano avere altre cose di cui preoccuparsi. In un periodo in cui la fiducia nella politica è ai minimi storici, specialmente tra i giovani, la categoria più sensibile alle questioni ambientali, il quorum sembrava difficilmente raggiungibile.
Anche il tempo sembrava remare contro i proponenti. All’inizio della campagna le limitazioni agli assembramenti rendevano difficile raccogliere le firme e fare manifestazioni; la domenica della consultazione poi, è caduta in una splendida giornata di sole, dove la tentazione di recarsi al mare, in montagna o oltre le frontiere appena riaperte era fortissima.
La maggior parte della campagna elettorale è stata portata avanti da volontari, spesso non affiliati ad alcuna organizzazione, online e tramite un volantinaggio capillare, a volte addirittura tramite lettere scritte personalmente ai vicini di casa degli attivisti e consegnati manualmente.
Nel frattempo, il fronte referendario si allargava, fino a coinvolgere settori normalmente poco inclini a schierarsi così in politica, come il Club Alpino, gli scout e le associazioni dei pescatori e cacciatori.
Su un fronte più istituzionale, hanno avuto un peso le prese di posizione dell’Università di Lubiana e l’Accademia Slovena delle Scienze e delle Arti, che in un comunicato ha dichiarato che aumentare le possibilità di interventi sui terreni costieri è “inaccettabile in un momento in cui cresce la pressione sull’acqua e sull’ambiente”. Anche il presidente della Repubblica Pahor, sia pure senza schierarsi apertamente, ha fatto capire di non aver gradito la riforma e i modi in cui è stata proposta.
La campagna referendaria, amplificata anche dalla presa di posizione di musicisti, attori e artisti, ha toccato gli sloveni su un terreno sensibile. I proponenti sono stati abili nel mettere in relazione la protezione dei fiumi con la salute delle falde acquifere, da cui attinge la stragrande maggioranza degli acquedotti del paese. La conservazione della natura, e tra questa la bellezza dei suoi laghi e fiumi, è uno dei marchi distintivi della Slovenia, che è anche uno dei pochi paesi al mondo ad aver inserito il diritto all’acqua potabile nella propria Costituzione nel 2016.
Tra propaganda e fake news
Se il referendum ha scaldato così tanto gli animi, però, è anche merito, o demerito, dell’attuale esecutivo e alla sua straordinaria capacità di dividere gli elettori. Stretto alleato del vicino Orbán, il premier Janša è stato accusato di aver approfittato della pandemia per limitare le libertà civili nel paese e in particolare delle organizzazioni per i diritti civili e ambientaliste.
Durante la campagna referendaria, secondo i comitati promotori, le posizioni governative avrebbero monopolizzato i media nazionali. In molti tra gli attivisti dichiarano di aver avuto i loro account Facebook e Instagram sospesi con l’accusa di diffondere notizie false fino a pochi giorni prima delle votazioni.
Per il ministro dell’Ambiente Andrej Vizjak, contestatissimo dalle opposizioni per il suo passato nell’industria idroelettrica, tutta la campagna referendaria sarebbe stata d’altro canto solo una sorta di gigantesca fake news. “Con l'emendamento alla legge sull’acqua”, aveva dichiarato, il governo voleva soltanto “tutelare e salvaguardare ulteriormente le risorse idriche”.
La nuova legge eliminava in effetti la possibilità di chiedere un’autorizzazione al governo per costruire in deroga, in casi eccezionali, lungo la fascia costiera. Il ministro si guardava però dal ricordare che con le nuove norme poter costruire alcune opere fin sulle sponde dei fiumi sarebbe diventata la norma e non più l’eccezione. Glissava anche sul fatto che fino a poco tempo prima, in una versione della nuova legge poi ritirata, il governo voleva addirittura autorizzare l’uso di sostanze “pericolose” nelle aree di rispetto dei corsi d’acqua, un trascorso difficile da conciliare con l’immagine di un esecutivo che si batte per la tutela della risorsa idrica.
Un altro terreno su cui le due parti si sono accusate reciprocamente di dire falsità è quello della protezione delle alluvioni. Secondo i proponenti del referendum e molti accademici, le nuove opere autorizzate avrebbero ostacolato il deflusso delle acque aumentando il pericolo di inondazioni, ed entrando in aperto contrasto con la Direttiva Acque dell’Unione europea. Il governo, dal canto suo, faceva notare che l’articolo contestato prevedeva anche lo stanziamento di 17 milioni per la manutenzione ordinaria dei fiumi.
In sostanza, per il governo tutta la campagna referendaria sarebbe stata sostanzialmente una montatura da parte di chi era “contro il governo in quanto tale”.
“Nessun dramma”
Che l’11 luglio, almeno in parte, il referendum sia stato proprio su Janša non c’è dubbio. Mentre le opposizioni ne chiedono le dimissioni, in molti si aspettano almeno un parziale cambio di rotta. Il premier, però, almeno a parole, tira dritto. “Nessun dramma”, ha scritto su Twitter, domandandosi poi, sarcasticamente, se un governo di sinistra si sia mai dimesso per aver perso un referendum.
Nei prossimi sei mesi, in ogni caso, la Slovenia avrà un ruolo importante nei dossier da portare avanti in sede europea, compreso il Green Deal e la lotta al cambiamento climatico. Per farsi sentire gli ambientalisti non potevano scegliere un momento migliore.
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