l primo libro del collettivo Volna Mare ci prende per mano e ci accompagna a est. A guidare la macchina sono occhi giovani, carichi di domande e di buone letture
Comincia con delle Peroni ghiacciate in una rovente pizzeria di Torino il viaggio di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo. Tre ragazzi degli anni Novanta, che non ricordano Berlino divisa in due e che forse anche per questo – come non comprenderli da queste pagine! – sono irrefrenabilmente attratti dall’oltrecortina. Nasce così, in una calda serata di giugno, l’idea di un viaggio in macchina verso la Transnistria, una piccola repubblica non riconosciuta dalla comunità internazionale, che de iure appartiene al territorio moldavo ma de facto è indipendente dal 1992. Un viaggio verso est, da Pordenone a Tiraspol (la capitale di questo stato che non c’è), passando per Slovenia, Ungheria, Romania e Moldavia. Insomma un coast to coast dello spazio post-sovietico, che nel libro – come sempre nato postumo, e che a sentire gli autori non era in programma – viene servito in un piatto misto, coraggiosamente imbastito con diversi generi letterari.
Ne Il futuro dopo Lenin troverete un po’ di tutto: dialoghi e foto di ventenni on the road, che hanno stipato di sughi Barilla il bagagliaio della macchina di un generoso genitore offertosi come sponsor, insieme alle riflessioni di studiosi seri, che sanno dove stanno andando e hanno una sana voglia di sottoporre il proprio bagaglio teorico alla temibile prova della realtà. Tre gli autori e tre i personaggi di questo pastiche letterario: c’è Martina, che da brava friulana beve più di quanto mangia, ma cosa ben più importante parla russo – la sensazione è che senza di lei il viaggio avrebbe avuto meno successo –; e poi ci sono Marco e Simone, i cui discorsi diretti si confondono in un’ironia sempre intelligente, che strappa il sorriso soprattutto quando non cerca di farlo. Il primo, piemontese di Pianezza, appassionato di treni ed ex Jugoslavia; il secondo, cresciuto all’ombra delle Alpi Retiche, che prima di approdare a Sarajevo (il suo “punto di non ritorno”) ha fatto un piacevole scalo studio a Bologna.
La Transnistria è la meta di un gruppo deontologicamente determinato a raccontarla «come se fosse un paese normale», ma come tutti i luoghi d’arrivo non è che il pretesto per riflettere su questioni che vanno oltre la parabola politica di uno dei tanti angoli d’Europa storpiati da un certo giornalismo italiano. Squarci di riflessione sulle storiche «questioni di fondo» – comunismo, identità nazionale, lingua, religione, minoranze – interrompono i (non uniformemente appassionanti) dialoghi giovanili(sti), lasciando il giusto spazio agli acuti di una voce quarta che tutto sa, ospitata dai box di approfondimento. Una tecnica grafica e narrativa che non è riuscita a nessun sussidiario di cui conservo memoria, ma che in questo caso risolve con efficacia e senza pedanterie il meritorio intento divulgativo dell’opera. Mentre, tra virgolette, gli avventurieri discutono su dove andare a mangiare, da quei quadrati grigi il lettore apprende quasi senza accorgersene che nella Moldavia meridionale abitano i Gagauzi – una minoranza che parla turco ma professa il cristianesimo ortodosso –, capisce cosa sono i «chruščëvki» – gli economici moduli abitativi della ricostruzione targata Nikita Chruščëv – e gusta sfiziosi aneddoti del mondo sovietico – lo sapevate che dall’altra parte l’orsetto ghiotto di miele si chiamava «Vinni-Puch»?
Se è negli spazi grigi che il collettivo fornisce la miglior prova di sintesi, sullo sfondo bianco brillano di luce propria le interviste alla popolazione locale, rese possibili e concrete dal russo di Martina. Due incontri in particolare forniscono le chiavi di lettura del libro: quello con la direttrice del museo di Tiraspol, che con parole semplici spiega il legame che sente con il mondo culturale russo – «Moldavi e ucraini non hanno saputo intrecciare una relazione con il passato comune. Lo cancellano, lo obliano, punto. Noi, invece, non rinneghiamo il nostro recente passato» – e quello con la giovane studentessa dell’Università della capitale, cui Marco chiede se è mai stata in Europa, incassando questa risposta: «Sì, in Bulgaria, ho dei parenti lì. Lo trovo un paese stupendo: non a caso ci vanno in vacanza un sacco di russi». Disorientato, Marco specifica che la sua domanda si riferiva «all’Europa quella vera», tradendo senza i timori dell’intellettuale i suoi stereotipi e la sua prospettiva occidentale: la stessa del lettore, e a ben vedere la ragione e il senso di questo viaggio e di questo libro.
Il futuro dopo Lenin è un allegro ma non troppo reportage in cui la Transnistria sveste finalmente i panni «dell’ultimo baluardo sovietico» e si presenta in tutta la sua difficoltà, come terra di confine della Grande Storia. Un fragile e povero lembo di Novecento che ai nostri occhi possiede il fascino irresistibile di un mondo sommerso, ma che non per questo dovremmo permetterci di banalizzare a riserva indiana degli «ultimi comunisti». Come ribadito dal collettivo nel corso di una bella intervista, in Transnistria il passato appare ancora in fieri: a nessuno potrà venire in mente di abbattere le statue di Lenin prima che la ricerca di una storia comune non sia riuscita ad argomentare diversamente le ragioni di uno stato che al momento non esiste sulla carta geografica. Se, per i giovani di laggiù che da laggiù continuano ad andarsene, il futuro parla anzitutto russo, questo non accade per coerente strategia politica della potenza egemone – come il resto della comunità internazionale, Mosca continua a non riconoscere la Transnistria come stato indipendente, trattando Tiraspol alla stregua di «un’amante», per usare un’espressione dei nostri autori – ma per ragioni linguistiche e culturali che l’Unione Sovietica valorizzò al fine di governare, un fatto di cui 475.000 persone che abitano al di là del fiume Dnestr, siano esse di nazionalità moldava, ucraina o russa, conservano forme di memoria.
In conclusione, Il futuro dopo Lenin è un diario di viaggio scritto da giovani meno giovani di come non abbiano scelto di presentarsi, che promette freschezza ma mantiene innanzitutto densità. Un diario che non a caso, a sorpresa, si chiude quando saremo vecchi: il 9 novembre 2089. Cento anni dopo la fine di un mondo di cui non siamo stati testimoni. Cento anni dopo una cesura dentro alla quale siamo nati, e su cui non smetteremo mai di interrogarci.
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