Bravo ma sfortunato. Il regista turco Nuri Bilge Ceylan si è trovato davanti un ostacolo insormontabile per portare a casa la 64ma Palma d'oro: "L'albero della vita" di Terrence Malick era inarrivabile. Una rassegna finale sul festival di Cannes di quest'anno
È stato bravo e “sfortunato” questa volta Nuri Bilge Ceylan. Il regista turco ha presentato al Festival di Cannes il suo film forse più bello, “Once upon a Time in Anatolia”, ma si è trovato davanti un avversario troppo più grande di tutti, “L’albero della vita” di Terrence Malick.
Così quest’ultimo si è portato a casa, più esattamente gliela porteranno i produttori dal momento che, schivo quasi quanto Stanley Kubrick l’autore de “La sottile linea rossa” è stato lontano dalla Croisette, la 64° Palma d’oro. E il regista di “Uzak – Lontano” e “Il piacere e l’amore”, già più volte premiato al festival francese, si è dovuto “accontentare” del secondo premio per importanza, il Gran premio della giuria ex equo con i fratelli belgi Dardenne con “Il ragazzo con la bicicletta”.
Una selezione di altissimo profilo che ha messo a dura prova la giuria, presieduta da Robert De Niro, che ne è però uscita con un bel verdetto.
Il flop
Completamente ignorato nel palmares il deludente “La source des femmes” (La sorgente delle donne) del franco-romeno Radu Mihaileanu. Il regista di “Train de vie” e “Il concerto” ha ripreso uno spunto già utilizzato da altri registi: lo sciopero del sesso da parte delle donne di un villaggio arabo. Lo scopo fare in modo che gli uomini, anziché stare al bar con le braccia conserte, costruiscano un acquedotto. Promuove la rivolta la giovane Leila, dopo aver visto un’amica abortire a causa della fatica fatta a portare i secchi a mano. La sostengono un’anziana vedova e il marito, mentre la suocera la ostacola in tutti i modi. Molto ben recitato (tra le attrici ci sono Hafsia Herzi, Hiam Abbass e le novità Leila Bekhti e Sabina Ouazani), dovrebbe essere un canto alla determinazione e alla lungimiranza delle donne, ma si rivela maschilista nell’epilogo, con i versi del canto finale che ribaltano il senso del film. Anche la scrittura di una storia così lunga (due ore e 20 minuti) latita: molto articolata e dilatata nella prima ora e mezza con tanti personaggi e sottotrame, la storia si concentra tutta nell’ultima parte, diventando sempre meno verosimile e perdendo di vista tanti spunti.
Il top
Scrittura al contrario quasi perfetta quella di Nuri Bilge Ceylan, che ha avuto come co-sceneggiatori la moglie Ebru ed Ercan Kesal, per un poliziesco anomalo che supera le due ore e mezza di durata.
Un commissario di polizia, un procuratore e un medico conducono di notte il sospettato di un omicidio tra le colline brulle della provincia alla ricerca del cadavere che ha occultato. Si conosce già il colpevole e nemmeno i motivi del crimine importano: l’uomo ha già confessato prima che inizi la storia ma non ricorda il punto in cui ha nascosto il corpo della vittima.
L’indagine (tutta l’azione si svolge lungo un arco temporale di meno di 24 ore) riguarda più gli investigatori che l’assassino, lo si scopre mano a mano che i dialoghi a prima vista casuali acquistano senso. Il discorso più importante, su una donna che ha annunciato con cinque mesi d’anticipo il giorno della sua morte, viene ripreso più volte finché diventa chiaro che si tratta di un evento autobiografico di chi lo racconta. Interessante il fatto che, nei tre atti in cui è strutturato, il film cambi protagonista: nella prima parte al centro c’è il commissario, nella parte centrale è il procuratore (che dice di somigliare a Clark Gable e ha il tic di sistemarsi capelli e baffi), in quella conclusiva è il medico. Sono gli ultimi due i più sviluppati e interessanti, avendo entrambi perso la moglie e sentendosi in colpa. “Il suicidio è un atto d’accusa verso chi resta” dice il procuratore e il dottore commenta “Lo sapevo già”.
Ceylan gira molto bene e ha una capacità di approfondimento psicologico molto spiccata, bastano pochi gesti o parole per esprimere il mondo contenuto dentro i suoi personaggi. È un cinema di dettagli e tempi lunghi (ma mai morti), attento alla forma della narrazione quanto alla componente umana, meno freddo e distaccato di quanto possa sembrare. “Once upon a Time in Anatolia” richiede un po’ di pazienza e impegno allo spettatore per comprendere le coordinate della storia, poi diventa un racconto affascinante che non dà risposte precise e lascia aperti alcuni interrogativi. Una lode anche ai tre attori principali, tutti nuovi ingressi nella famiglia cinematografica di Nuri Bilge Ceylan, Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan e Taner Birsel.
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