Dopo violente proteste, l'Alta commissione elettorale ha fatto marcia indietro sulla decisione di impedire a 7 rappresentanti indipendenti della minoranza curda di candidarsi. Passata la bufera, si apre la campagna elettorale e gli analisti ragionano sulle possibili alleanze post elettorali
A due mesi dalle elezioni politiche il dibattito in Turchia era disteso, pochi i dubbi sull’esito delle consultazioni. Secondo tutti gli osservatori, il 12 giugno, l’AKP Adalet ve Kalkınma Partisi ( Partito della giustizia e dello sviluppo) del premier Recep Tayyip Erdoğan, saldamente alla guida del paese dal 2002, si sarebbe riconfermato come primo partito. Unica incognita il numero dei seggi che gli islamisti avrebbero conquistato. L’AKP “è ormai egemone, il quadro politico uscito dalle elezioni del 2007 dopo il 12 giugno rimarrà lo stesso” scriveva il politologo Fuat Keyman sul quotidiano Radikal. Il 18 aprile, tuttavia, la decisione dell’Alta commissione elettorale (YSK) di escludere i sette candidati più in vista del partito curdo dalle liste elettorali, ritirata tre giorni dopo, ha portato in piazza migliaia di persone in tutto il Paese catapultando la Turchia nel pieno di uno scontro pre-elettorale dalle conseguenze incerte.
La cronaca dei fatti
Il 18 aprile a pochi giorni dalla presentazione delle liste da parte dei partiti che correranno alle elezioni, l’Alto consiglio elettorale annuncia che 12 candidati, di cui sette sostenuti dal filo-curdo Partito della Pace e della Democrazia (BDP), sono ineleggibili perché “inadatti al ruolo di parlamentari a causa delle precedenti condanne penali”. I leader del partito curdo e la sinistra turca gridano al golpe, il quotidiano pro-curdo Özgür Gündem il giorno dopo titola “è una dichiarazione di guerra”. “Si è presa questa decisione sapendo bene quali sarebbero state le conseguenze. Siamo davanti a un complotto ordito dallo Stato, il parlamento deve riunirsi immediatamente e rimandare le elezioni” dichiara il segretario del BDP Selahattin Demirtaş. Migliaia di persone scendono in piazza sia a Istanbul che nel sud est a maggioranza curda per chiedere l’immediato ritiro del provvedimento, negli scontri muore un manifestante curdo a Bismil nella provincia di Diyarbakır. La questione curda torna, così, al centro del dibattito politico e gli islamisti dell’AKP e il principale movimento d’opposizione il Partito repubblicano del popolo (CHP) si schierano contro l’esclusione dei candidati curdi. Il 21 aprile l’Alto consiglio elettorale è costretto a ritornare sui suoi passi e, dopo la consegna da parte dei candidati di documenti che certificano il loro non-coinvolgimento in processi penali in corso, sei su sette vengo riammessi alle consultazioni.
Gli esclusi, Leyla Zana e gli altri
Tra i candidati che la Commissione elettorale aveva escluso il 18 aprile, Leyla Zana, la parlamentare che nel 1994 era stata privata dell’immunità parlamentare e condannata a dieci anni di carcere per essere intervenuta in curdo in parlamento, diventando il simbolo, anche in Europa della repressione anti-curda. Fuori dalle liste anche Gültan Kışanak co-presidente del BDP, Hatip Dicle ex-segretario del pro-curdo DEP sciolto dalla Corte costituzionale nel 1994 per propaganda separatista, Sabahat Tuncel, femminista curda e prima deputata eletta mentre era in carcere e Ertuğrul Kürkçü, leader del più importante movimento marxista negli anni settanta, Devrimci gençlik [in italiano Gioventù rivoluzionaria, ndr].
I precedenti
Non è la prima volta che il potere giudiziario si fa promotore di iniziative dalla chiara valenza politica in nome della difesa dei principi del kemalismo, l’ideologia di stato laicista e ultra-nazionalista adottata dalla Turchia negli anni venti. È successo, ad esempio, nel dicembre 2009 quando il partito pro-curdo DTP, predecessore dell'odierno BDP, è stato dichiarato illegale per “propaganda separatista” e per il presunto legame con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), oppure, nel 2007, l’annullamento dell’elezione di Abdüllah Gül a Presidente della repubblica perché islamista. Questa è la prima volta però che un organo istituzionale è costretto a rivedere una decisione assunta in precedenza e che la maggior parte dei partiti si schierano contro un provvedimento dei giudici che colpisce i curdi.
Scenari possibili
Ora che i riflettori, puntati sui candidati curdi, si sono spenti, l’attenzione in Turchia si sta spostando sullo scontro tra i tre partiti che oltre al BDP, hanno una rappresentanza parlamentare: L’AKP di Erdoğan, il Partito repubblicano del popolo (CHP) guidato dal leader social-democratico Kemal Kılıçdaroğlu e il Movimento d’azione nazionalista (MHP) di Devlet Bahçeli che alle scorse elezioni hanno ottenuto rispettivamente il 46,6%, il 20,8% e il 14,7% dei voti.
Rientrata la crisi istituzionale generata dalla bocciatura dei candidati curdi, gli analisti politici in Turchia ritornano a ragionare sulle possibili alleanze post-elettorali. Murat Yetkin su Radikal del 17 aprile ragiona sui differenti scenari possibili, per comprendere che piega prenderà l’azione del governo, comunque, l’incognita principale è il numero di parlamentari che l’AKP riuscirà ad eleggere, se saranno più di 330, avranno la maggioranza assoluta e quindi il governo sarà in grado di promuovere modifiche costituzionali senza ricorrere ad alleanze con altri partiti, se invece gli islamisti moderati otterranno solo la maggioranza relativa dei voti, Erdoğan potrà formare un nuovo governo, ma per promuovere riforme istituzionali sarà fondamentale l’appoggio di un altro partito. Potrebbero essere i curdi del BDP e in tal caso il nuovo governo dovrà inserire nel suo programma le rivendicazioni dei curdi come lo stop alle operazioni militari nel sud est del Paese o una nuova costituzione aperta ai diritti delle minoranze. Senza parlare esplicitamente di un’alleanza Sabahat Tuncel, intervistata da Osservatorio Balcani Caucaso, spiega che “sebbene l’AKP non abbia fatto nulla per risolvere davvero la questione curda, se otterremo il risultato che ci aspettiamo sarà l’aritmetica a contare. Per scrivere la nuova costituzione l'AKP non potrà che confrontarsi con noi.” Un’altra possibile alleanza potrebbe vedere l’AKP a fianco degli ultra-nazionalisti del MHP, questo implicherebbe, però, un rallentamento nella ricerca di una soluzione alla questione curda e al processo di integrazione della Turchia nell’Unione europea. Infine l'AKP potrebbe affidarsi al kemalista CHP che, dopo l’elezione a segretario del partito di Kemal Kılıçdaroğlu, è diventato più aperto al dialogo su temi come laicismo e questione curda. Tutto questo sempre che il CHP, imprevedibilmente non riesca a vincere le elezioni. Questa ipotesi non è ad oggi, tuttavia, avvalorata da alcun sondaggio.
Chiunque sarà a governare, il lavoro del parlamento che uscirà dalle elezioni del 12 giugno sarà tutt’altro che semplice. Molto del programma dell’AKP, dalle riforme istituzionali, passando per la questione curda, fino al nuovo protagonismo internazionale “neo-ottomano” è ancora da realizzare. Gli islamisti moderati, forse fino ad ora un po’ troppo sicuri di vincere, hanno ancora poco meno di due mesi per convincere gli elettori a dare loro, ancora una volta in mano, le redini del Paese.
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