Nella 76° edizione della rassegna francese da poco conclusa il regista turco Nuri Bilge Ceylan era presente con “About Dry Grasses - Kuru otlar üstüne”, la cui protagonista Merve Dizdar ha vinto il premio come miglior attrice. Si tratta di uno dei film che più resteranno di questa edizione di Cannes
Solo nel 2018, quando presentò “L’albero dei frutti selvatici”, era successo che Nuri Bilge Ceylan non ricevesse un premio al Festival di Cannes. Nella 76° edizione della rassegna francese da poco conclusa, il cineasta turco vincitore della Palma d’oro nel 2014 con “Il regno d’inverno” è tornato alle buone abitudini, fruttando con “About Dry Grasses - Kuru otlar üstüne” il premio di miglior attrice alla sua protagonista Merve Dizdar, incredula al momento di salire sul palco per ritirare il riconoscimento.
Protagonista è Samet (Deniz Celiloglu), un' insegnante d’arte assegnato per quattro anni in una scuola curda dove gli inverni sono lunghi e nevosi, che non vede l’ora di tornare a Istanbul. L’uomo, che ama fare fotografie, si sente inutile e irrealizzato nel suo lavoro. Dopo un’ispezione in classe del direttore, che sottrae una lettera d’amore alla ragazzina Sevim, Samet è accusato con il collega Kenan di comportamenti inappropriati in classe, senza che sia spiegato il come e il quando si siano verificati. Innervosito dalla vicenda, il docente comincia a cedere a scatti di rabbia in classe, come quando dice ai ragazzi che non diventeranno artisti e che dovranno coltivare patate.
Nella scuola c’è anche l’insegnante d’inglese Nuray (Dizdar), che ha perso la gamba in un attentato e cammina con una protesi. Entrambi i colleghi si invaghiscono di lei, considerata “di sinistra” per un’immagine che trovano sui social.
Lo stile del regista turco si conferma e si affina sempre di più: soprattutto da “C’era una volta in Anatolia” (2011) sta portando avanti lavori dalla struttura articolata, dal passo romanzesco, costruiti su scene lunghe e spesso dialogate, mentre sembra non succedere molto o, meglio, l’enfasi non è posta sugli accadimenti. Superficialmente Ceylan sembra faccia sempre lo stesso film, ma possiede un’abilità con pochi pari nel costruire scene e dialoghi. Qui riprende tanti elementi – gli insegnanti, la neve, l’area archeologica, la fotografia – che aveva utilizzato nei film precedenti, collocandole in altri contesti, in un’opera in bilico tra l’intimista e il sociale, tra la crisi esistenziale e le accuse da cui difendersi, che procede per sfumature e scarti bruschi.
Come le sue pellicole più recenti, “About Dry Grasses” va ben oltre le tre ore di durata, ma ha il suo perché (il film è anche sul trascorrere del tempo) e il suo ritmo, anche se può risultare impegnativa per lo spettatore poco abituato, basta lasciarsi andare alle immagini come sempre composte sapientemente e al flusso dei rivoli della narrazione per restare incantati. La sorpresa maggiore è costituita dall’improvvisa rottura della convenzione della finzione che il regista opera mostrando il set e che interrompe forse l’unico momento di vita vera di Samet. È uno dei film che più resteranno di questa edizione di Cannes, da vedere quando uscirà in Italia distribuito da Movies Inspired. Un lungometraggio complesso e stratificato, più di quel che sembra, e il cui titolo si comprende nella parte finale, che critica ancora una volta la mentalità gretta e chiusa e pettegola della provincia e pure le istituzioni gerarchiche e schiaccianti, politico nel profondo.
Giustamente premiata, anche se la pellicola avrebbe potuto ricevere anche un premio più importante, l’interpretazione di Merve Dizdar, che ha già al suo attivo la partecipazione a diverse serie tv e a film, tra i quali l’interessante “Korfez – The Gulf” di Emre Yeksan.
Molto buono anche “Lost Country” del serbo Vladimir Perisić, presentato nella sezione collaterale Semaine de la critique dove nel 2009 aveva mostrato la sua opera prima, il duro “Ordinary People”.
Il regista, che ha scritto con la sceneggiatrice e regista francese Alice Winocour, si è aggiudicato il Prix Fondation Louis Roederer de la Révélation con una storia che prende spunto da memorie personali e familiari per diventare memoria e bilancio di una generazione di suoi connazionali. Siamo nell’autunno 1996, in piena epoca Milošević. Mentre si odono le note dell’Internazionale, si vedono le immagini di un fiume. Il quindicenne Stefan e il nonno raccolgono le noci, intanto ricordano la vittoria olimpica di Seul della squadra jugoslava di pallanuoto: il nonno, già partigiano, era nella delegazione del partito che accompagnò gli atleti ai Giochi, mentre il ragazzo è un promettente giocatore. Più tardi l’adolescente torna a Belgrado: sono in corso le elezioni, i muri sono tappezzati da manifesti con le facce di Milošević, ma la coalizione Zajedno sta vincendo nelle città impaurendo il governo.
La madre di Stefan, Marklena (il nome viene dall’unione di Marx e Lenin), è la portavoce del Partito socialista e deve anche andare in televisione a esporre le posizioni ufficiali. Per strada crescono le dimostrazioni dell’opposizione e Stefan è diviso sul che fare, mentre la genitrice è elusiva e non risponde alle domande. Cresciuto nel mito della Jugoslavia e nel culto dei partigiani, il giovane si ritrova dalla parte della dittatura, mentre i suoi coetanei protestano per la libertà. La tensione cresce e un culmine arriva quando madre e figlio sono lasciati a piedi da un tassista, che la riconosce avendola sentita parlare al telegiornale.
Esemplare è anche la scena del compleanno del nonno, quando tutti cantano l’inno jugoslavo e viene esplicitata al meglio la parabola familiare: credono di essere rimasti fermi sulle loro posizioni e i loro ideali, mentre sono passati dalla parte di chi opprime. Stefan scappa dalla famiglia e contemporaneamente litiga con gli amici per la politica (altro momento chiave la partita in cui i compagni di squadra non gli passano la palla), mentre conosce la coetanea Hana, il cui padre è andato a vivere a Sarajevo, e ha visioni del futuro, compreso ciò che accadrà in Kosovo di lì a poco.
Perisić non fa sconti neanche stavolta, realizza un film ancora migliore del precedente, duro e incisivo e pessimista anche per il futuro. Il regista parla del passato recente per provare a ricomporre qualcosa nella società, ma sembra non avere esito, dal momento che risulta impossibile trovare un punto in comune. Una pellicola importante per la Serbia, ancor più alla luce delle proteste degli ultimi mesi.
Evoca e produce suggestioni, più che spiegare, il russo “Grace - Blazh” di Ilya Povolotsky presentato all’interno della 55° Quinzaine des cinéastes. Rimasti soli dopo la morte della madre, un padre e una figlia senza nome viaggiano in furgone nel sud della Russia, percorrendo un Caucaso aspro e abbandonato. Fanno proiezioni nei villaggi che attraversano e hanno il timore che il lavoro finisca quando internet arriverà ovunque. I due parlano poco, non hanno una destinazione precisa e a volte devono scappare in fretta da situazioni che diventano pericolose. La ragazza vuole andare al mare e ogni tanto fa delle foto, entrambi leggono parecchio: da un venditore ambulante lungo la strada, il padre compra libri di Vonnegut e Dovlatov. “Questo non è un periodo per turisti” gli ripetono a un posto di blocco e il regista rende bene il senso di precarietà e inquietudine, con immagini belle ma mai cartolinesche, del resto non li vuole mostrare come luoghi ospitali. E le musiche danno un senso quasi apocalittico.
Tra i restauri di Cannes Classique è stata riproposta una perla del cinema sovietico, “Barev, es em – Hello, That’s Me” dell’armeno Frounze Dovlatian (1965), che in patria folgorò quelli che lo videro, ma ha circolato poco all’estero, nonostante fosse stato in concorso proprio a Cannes nel 1966. Un esempio di quella stagione in cui, tra gli interstizi del potere, potevano spuntare opere inaspettate e fuori dai canoni.
Una voce narrante che suggerisce ma non spiega molto, conduce a trovare gli amici fisici Artyom Manvelyan e Oleg Ponomaryov si ritrovano a giocare e fantasticare su un tetto. Di fronte c’è il negozio di giocattoli dove è fissato l’appuntamento con Lyusya, moglie di Artyom e capitano dell’Armata rossa. È in corso la Guerra mondiale, i nazisti stanno ancora avanzando, non sono ancora arrivati al Volga. Un giorno la donna è inviata al fronte all’improvviso, affidando a un ragazzo l’incarico di avvertire il marito. Intanto i due scienziati portano avanti l’idea di un laboratorio in montagna per condurre esperimenti in quota e convincono il consiglio universitario a fare degli esperimenti non lontano dall’Ararat. Il film mostra i loro problemi della burocrazia, soprattutto legati al fatto che, durante la guerra, tutta la ricerca era concentrata sulla fisica nucleare.
Ci si muove tra Mosca (fa pensare al quasi coevo “A zonzo per Mosca” di Georgij Danelija con Nikita Michalkov del 1964), Yerevan e la montagna, in un paesaggio innevato, surreale e quasi fantascientifico, influenzato, anche visivamente, dagli esperimenti. Dovlatian realizzò un film assai libero, tra l’esistenziale, il metafisico e il contemplativo (a tratti si è dalle parti del cinema sperimentale) più che il realistico o il narrativo, un corpo estraneo al cinema sovietico precedente. Le inquadrature sono molto dinamiche, con un utilizzo insistito di piani sequenza molto belli, come la lunga carrellata a seguire Artyom e la studentessa Tanya che lo tampina per la strada. A suggellare questa atmosfera la colonna sonora jazz e i tocchi surreali, come il gruppo di ciclisti di notte.
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