Istanbul, punto di sutura tra due continenti, Asia ed Europa. Passaggio obbligato per i rifugiati come Mussa Khan, soprattutto ora che le rotte dei muhajirin si sono spostate verso nord. Qui il loro destino incrocia le contraddizioni in bilico tra sviluppo economico e diritti negati
Battuto da un leggero vento mattutino, il Bosforo irrompe nel mio dormiveglia come uno schiocco di dita. L'autobus corre silenzioso su un titanico viadotto ad arcata unica, punto di sutura metallico tra Asia e Europa, mentre il sole all'orizzonte si sforza di completare il suo ovale, annunciando un nuovo giorno.
Istanbul. Costantinopoli. Bisanzio. La città più poliglotta al mondo si rivela fin nella sua toponomastica. Fondata nel settimo secolo avanti Cristo, fu intitolata dai coloni di Megara al loro re Byzas; ad essa l'imperatore Costantino sovrappose nel 330 la sua “Nova Roma”, Costantinou Polis; dodici secoli dopo, la Sublime Porta pose sulla storia il suo attuale sigillo: Istanbul, dal greco “istinpolis”. Semplicemente “in città”.
Il mio unico obiettivo qui è informarmi e ripartire. Mussa è passato da poche ore su questo ponte in direzione nord, diretto verso il fiume Evros, l'ultima porta d'Europa. Se, come promesso, si farà vivo appena entrato in Grecia, potrei incontrarlo anche domani. Finalmente.
Il corpo, però, non sempre si adegua ai ritmi della mente. Profonde fitte mi scuotono improvvise: arrivato in città, nonostante i 40 gradi, sono assalito dai brividi. Insieme alle energie, svanisce con la febbre anche la speranza di battere la pista ancora calda di Mussa. La mia corsa, almeno per il momento, si ferma ad Istanbul.
“Il tuo amico deve trovarsi già nelle mani della polizia greca. Lo aspettano momenti molto duri nei campi di detenzione al di là dell'Evros”. Giovedì. Ci sono voluti quattro giorni di riposo forzato a rimettermi in piedi. Nell'ufficio centrale dell'Helsinki Citizenship Assembly di Istanbul incontro di nuovo Maria, l'avvocatessa conosciuta due settimane prima a Van. Scopro che si trovava in Kurdistan in missione, ma che normalmente lavora in questa sede.
L'atmosfera è cordiale, quasi come tra vecchi amici. “Di solito, appena attraversato il fiume, i migranti si consegnano spontaneamente alle forze dell'ordine. Felici di essere finalmente arrivati in Europa, si aspettano un trattamento degno. Gli stessi trafficanti li incoraggiano a rivolgersi ai poliziotti”.
Mentre parla, Maria sfila da uno scaffale un rapporto nutrito. “In realtà le condizioni di vita nei campi di detenzione sono pessime. I migranti vengono ammassati in stanzoni luridi, dopo una prima registrazione sommaria. Non ci sono interpreti, le procedure sono vaghe e gli agenti ricorrono troppo spesso alle maniere forti. Ma questo” assicura Maria sfogliando il rapporto “è il problema minore. Il peggio arriva dopo”.
Temo di sapere già di quale male voglia parlarmi: le espulsioni extra-legali. Pagina 26 del rapporto Europe's murderous borders, “le frontiere assassine d'Europa”, pubblicato dall'organizzazione Migreurop. Maria legge con voce piana: “Nel periodo 2005-2007, a fronte di 54.608 decreti di espulsione emessi dal governo greco, sono stati effettuate 141.777 espulsioni. Circa i due terzi dei migranti, quindi, sono stati espulsi in assenza di qualsiasi provvedimento legale”.
Le espulsioni vengono effettuate proprio sulle acque torbide del fiume Evros. “In tempi recenti abbiamo riscontrato una diminuzione del fenomeno”, osserva Maria “ma restiamo molto preoccupati. E' difficile ottenere informazioni da quei luoghi. Si tratta di una delle frontiere più calde d'Europa, e la forte militarizzazione su entrambi i lati del fiume non ci permette di mantenere presidi nella regione”.
Eseguite in aperta violazione del diritto internazionale, le espulsioni extra-legali praticate da Atene hanno effetti devastanti se si pensa che la Turchia, a sua volta, procede sistematicamente al rimpatrio di cittadini iracheni, iraniani e afghani. Le “espulsioni a catena” espongono il rifugiato al pericolo peggiore, quello di essere riconsegnato alle autorità del proprio paese di origine, da cui, rischiando la vita, cerca di fuggire.
“Turchia e Grecia stanno negoziando un nuovo accordo di riammissione”, continua Maria. “A quanto pare Ankara è disposta ad accettare una quota di migranti molto più alta rispetto a quella attuale. In questo modo la Grecia non dovrà più ricorrere alle espulsioni illegali. Il risultato, però, resterà lo stesso: appena entrati in Unione europea, invece che trovare accoglienza ed asilo, i migranti verranno rimpatriati”.
In cambio, sempre secondo le voci raccolte da Maria, la Turchia spera di ottenere un regime di visti agevolato per i propri cittadini diretti in Europa. Voci che vengono confermate nel pomeriggio anche da Ahmad, avvocato dell'IHD ed esperto in diritti umani. “L'Unione europea ritiene che gli accordi di riammissione siglati dai propri paesi membri con Ankara siano pienamente legittimi. Purtroppo, però, si vuole ignorare il punto che la Turchia è ancora molto indietro riguardo alla tutela dei diritti umani. Per il nostro governo i migranti sono solo una carta negoziale sul tavolo di Bruxelles. ”Oltre ai rimpatri, in molti anni di attività l'IHD ha registrato innumerevoli episodi di tortura, maltrattamenti e alcuni casi di omicidio all'interno delle carceri turche.
“Il nostro codice prevede l'istituto del ricorso contro un decreto di espulsione” continua Ahmad. “Il problema, però, è che l'espulsione è immediatamente eseguibile. Puoi immaginare un cittadino afghano che da Kabul o Kandahar ricorre in appello contro il governo turco per una espulsione già avvenuta?”
La vitalità giovane e vorticosa del centro di Istanbul mi confonde. Uscito dall'ufficio percorro Istiklal Caddesi, Viale dell'Indipendenza, l'enorme vetrina dove l'Occidente mette in mostra il lato di sé che ama di più: quello delle vetrine, delle infinite luci colorate, dei fast food.
Ancora convalescente mi siedo su uno scalino, osservando l'immensa massa umana che sfila davanti ai miei occhi. Si calcola che ogni giorno tre milioni di persone calpestino questo viale.
Faccio il punto della situazione. In questi giorni Mussa Khan non ha mai acceso il cellulare, a conferma della tesi di Maria: deve trovarsi in un campo detentivo. In quelle circostanze si viene privati di tutti gli effetti personali, persino dei lacci delle scarpe. Potrà comunicare solo quando ne sarà fuori.
La possibilità di incontrare altri muhajirin è remota: a Istanbul i migranti si fermano solo il tempo necessario a trovare un mezzo di trasporto che li avvicini al sogno chiamato Europa. Alcuni, dopo aver comprato documenti falsi, provano con l'aereo; altri tentano di imbarcarsi sui traghetti diretti in Grecia; altri ancora acquistano biglietti d'autobus per Sofia o Atene. La maggior parte, però, si riversa sulle sponde fangose dell'Evros.
Seguirò quest'ultima pista. Ormai appartengo ad un flusso più grande di me, che mi guida nei momenti di indecisione. Prima di lasciare la città, però, devo rendere visita al luogo che riempie le memorie e gli incubi di molti muhajirin che ho incontrato sul mio percorso: Kumkapi, il centro di detenzione di Istanbul.
“Il cibo non era mai abbastanza, così le guardie avevano organizzato un mercato nero dentro la prigione. I prezzi per un panino erano tripli rispetto a quelli normali”. Osama, afghano, aveva vissuto a Kumkapi per circa due mesi. Rilasciato, ha poi fatto domanda di asilo a Van, dove l’ho incontrato. Quando mi parlò di Kumkapi, in una delle lunghe nottate sull’altopiano, avevo immaginato un luogo remoto, in periferia, lontano dalla città e dalle coscienze.
Osama raccontava a bassa voce episodi di violenza, di abusi, di prepotenze. “Lì dentro sono quasi tutti muhajirin afghani. Famiglie intere, senza spazi separati. La polizia non risparmia violenze neanche sui più deboli, donne e bambini inclusi.”
Kumkapi, un groviglio di lettere. Quando finalmente lo trovo, resto attonito. L’edificio, un vecchio tribunale adibito a prigione, è circondato su tre lati da ristoranti. Si tratta di una delle aree più turistiche di Istanbul. Incredulo, mi siedo su uno dei tavoli allineati sul marciapiede. Dalle sbarre alle finestre pendolano mani stanche, mentre dalla semioscurità delle celle esce solo il chiarore riflesso dagli occhi dei detenuti.
Faccio il giro del palazzo. Conto circa trenta celle per lato. La tinta bianca delle facciate è interrotta di tanto in tanto dai vestiti colorati che pendono a mo’ di bucato dai davanzali. Torno a sedermi al ristorante, voglio immortalare su una fotografia questa assurda normalità: un ragazzo da una cella al primo piano incrocia il mio sguardo, mentre ai tavoli intorno al mio vengono serviti boccali di birra ghiacciata.
Rimetto a posto la macchina fotografica. Mi avvicino alle transenne per salutarlo, solo un Salam ualeikum prima di andare via: rapace, un agente in borghese si precipita sul posto, afferrandomi per il braccio e allontanandomi deciso, ma in silenzio. Non si può disturbare la movida di una serata appena iniziata.
Non ho più nulla da fare qui. Saluto con la mano, ricambiato e mi allontano. Ritorno al mio viaggio, all’affannosa ricerca delle tracce di Mussa che, ironicamente, si fanno sempre più sbiadite quanto più mi avvicino alla sua meta.
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