Continua il viaggio verso le più piccole isole del Mar di Marmara dove il mare si fa di uno zaffiro sempre più intenso ed incrostato di lunghe, baluginanti creste perlacee. Terza puntata
Ekinlik, o Koutali. Paşalimani, o Aloni. Avşa, od Ofiousa. E, ovviamente, Marmara Adası, ovvero Prokonesos. Tutto qui ha doppio nome, turco e greco: anche questa costellazione di piccole isole che è come un arcipelago in miniatura sottratto all’Egeo e lasciato cadere nel mezzo del suo adiacente, piccolo mare. Il traghetto che mi sta portando via dalla maggiore, quella di Marmara, si avvicina veloce ad un’altra isola, vi approda, quindi riparte in pochi minuti volgendo la prora su quella di fronte, come una pallina fatta rimbalzare dal giocatore sulle sponde di un biliardo.
Se l’isola di Marmara è la regina dell’arcipelago che si leva più o meno al centro dell’omonimo mare, le altre isolette paiono le sue damigelle. Più piccole di superficie, non per questo sono meno rinomate e apprezzate dai turisti: che, è bene sottolinearlo, sono quasi esclusivamente turchi. Nella regione mi sono infatti sempre trovato in un ambiente privo di viaggiatori e turisti stranieri, europei in particolare. Questo costituisce sicuramente un elemento del fascino che contraddistingue il Mar di Marmara rispetto ad altre zone della Turchia che hanno fatto del turismo internazionale una sorta d’industria. Chissà perché, ma ad apprezzare le sue ricchezze paesaggistiche, storiche ed artistiche, sembrano essere solo i locali. Ti trovi così immerso in una Turchia che è ad un passo dall’Europa - anzi, che in tutta la sua costa settentrionale è propriamente Europa - ma che pure segue ritmi e modi, vive forme di rapporti umani ed interpersonali molto più autentici, genuini e spontanei di tante altre zone del Paese anche più remote.
Ne faccio esperienza già mentre navigo sul mio traghetto. Le chiacchiere svagate e leggere che si intrecciano tra passeggeri di ritorno da una vacanza o da una semplice escursione sono favorite dalla naturale socievolezza dei turchi, dalla loro ovvia curiosità nei confronti dell’unico straniero presente sull’imbarcazione, e dal suo armeggiare con un grosso apparato fotografico: specialmente se, particolare insolito, parla anche la loro lingua complicata. "Vede quest’isola? - mi dice come in confidenza un tipo sulla quarantina che si affaccia vicino a me durante lo scalo ad Ekinlik - Qui ha una casa il nostro Presidente. Sì, sì, Erdoğan! Viene qui di tanto in tanto, anche per poco tempo, a rilassarsi dei suoi impegni".
Costeggiamo quindi la lunga, sinuosa fascia costiera sabbiosa di Avşa: una meta da sogno per tanti istanbulioti perennemente afflitti dal traffico e dal caos della metropoli. E mentre finalmente capisco che il suo nome greco - Ofiousa, quasi ‘Serpentara’ - le deriva davvero dal fatto che nel suo insieme ha la silhouette di una grossa biscia dalle gobbe appena pronunciate sul pelo dell’acqua, ecco che un altro passeggero più giovane e disinvolto con cui ne commento le bellezze si avvia a scendervi, e nel congedarsi mi mette in mano l’indirizzo di un piccolo hotel in cui, assicura, mi troverò benissimo in un eventuale mio futuro soggiorno.
Durante la breve sosta, mescolati al frettoloso saliscendi dei passeggeri, dei ragazzetti in costume da bagno si arrampicano agilmente ai lati dello scafo, lo percorrono di corsa e si tuffano eccitati in mezzo alla schiuma ribollente delle eliche rimaste accese, in un gioco un po’ pericoloso che pare consueto, e che l’attenzione del personale di bordo non riesce ad evitare.
Il sole cala lentamente, mentre il piccolo traghetto riparte e si avvia al termine della corsa secondo un tragitto rettilineo: sfila sottovento rispetto a terre insulari ancor più piccole - le ancelle delle damigelle… - e attraversa brevi tratti marini non riparati, dove i marosi gonfiano il mare che si fa di uno zaffiro sempre più intenso ed incrostato di lunghe, baluginanti creste perlacee. È allora che mi appare lontano, verso sud, il promontorio di terra scura di Karabiga (Kara significa ‘nero’ in turco). In greco era denominato Priapos, e culminava in una città omonima dalle imponenti rovine, da me visitata solo alcuni giorni prima: era dedicata, come rivela il nome, alla inquietante e un po’ imbarazzante figura del dio pagano dotato di un membro dalle dimensioni spropositate, ben noto del resto anche ai visitatori di Pompei.
Mentre mi riprometto di approfondire quel curioso legame geo-mitologico sui miei libri, una volta rientrato in patria, raccolgo i commenti sulla stagione turistica di un padre di famiglia che rientra dalle ferie. Una stagione che sta finendo, mi dice. "Ma come - ribatto io - se siamo ancora al principio dell’estate!". "È vero - risponde - ma stasera comincia il ramazan (ramadan, in turco), non lo sa?" Gli dico, scusandomi della mia ignoranza, che sapevo che il ramazan vietasse solo di mangiare e bere durante le ore del giorno, ma non di restare in vacanza al mare. "Non c’è un divieto esplicito, è vero, ma non si sa mai - ribatte - Perché tra le altre cose, bagnandosi, potrebbe anche capitarle di inghiottire involontariamente dell’acqua…".
Finito quel gioco di rimbalzi tra le isole, pochi giorni dopo vado a visitare uno scenografico museo archeologico che sorge nel più popoloso centro dell’area, Bandirma, il porto dove approdano i traghetti degli istanbulioti provenienti direttamente dalla metropoli. A riprova di questa sua vocazione marinara, in greco era detto Panormos (come la nostra Palermo, che vuol dire "tutta ormeggi", "buona per l’approdo"). E lì, in una sola visione, trovo come un concentrato simbolico di questi doppi nomi, di queste duplici nature dei luoghi, di queste epoche cangianti e sovrapposte del Mar di Marmara, mai cancellate, mai del tutto spente. Due lapidi sono accostate ed appoggiate su un muro esterno, quasi per caso: ma una è scritta in un elegante e curvilineo turco ottomano; l’altra, in un greco squadrato, geometrico, nitido. La morte, penso, pareggia tutto: anche le tragiche, dolorose vicende del passato che lo splendore festoso di questo mare pudicamente nasconde.
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