L'isola di Marmara racchiude tre segreti: uno è quello della storia, il secondo quello della bellezza, il terzo è quello del suo nome. Continua la nostra esplorazione del Mar di Marmara
Prima l’ho avvistata, scrutata, desiderata da entrambe le coste. Da quella settentrionale, un giorno che arrivai a Tekirdaĝ e provai ad informarmi sui ferry boat per raggiungerla, senza però trovarne alcuno sul molo a quell'ora deserto. L’isola appariva grande in mezzo al piccolo mare, solenne nel suo profilo vagamente piramidale. Tra la caligine del mezzodì, mostrava sulla fronte montuosa le lunghe rughe bianche delle cave di pietra: di cui mi pareva di percepire, almeno con l’immaginazione, tutta la polvere e il sudore che generavano.
E poi l’ho vista anche dalla costa meridionale, quando l’anno successivo per la prima volta la percorsi per intero, e individuai con certezza nella cittadina di Erdek (la greca Artake) dei bei navigli bianchi ormeggiati al porto che parevano aspettarti, promettendoti delizie insulari. Qui da sud, l’isola di Marmara, la maggiore del suo omonimo arcipelago, appare intatta e verdeggiante: di un verde intenso e vivo, tipico di un clima mediterraneo ma spesso piovoso, come si addice ad un bacino che collega il secco Egeo con l’umido Mar Nero.
Ma dovetti aspettare ancora un anno per approdarvi, saltando finalmente su uno di quei traghetti, quello la cui navigazione sarebbe stata poi allietata dai suoni di un’orchestrina sul ponte scoperto. E così arrivai a Marmara Adası (l’Isola di Marmara, in turco), regina di quel mare che da lei ha preso il nome. Non volevo soggiornarvi a lungo (mi riservo questo piacere per un ulteriore, futuro viaggio), magari godendo delle sue candide spiagge, ma avevo una meta precisa. Puntavo al suo versante nord, opposto a quello in cui ero attraccato dopo un’oretta di navigazione: volevo vedere le cave.
Come possono delle cave di pietra attrarre tanto un viaggiatore? È presto spiegato. Esse racchiudono infatti tre segreti: uno è quello della storia e della ricchezza, il secondo quello della bellezza, il terzo è quello del nome di questo mare.
Marmara. Marmo
L’associazione viene spontanea non solo nella nostra, ma in quasi tutte le lingue del mondo. Da quelle cave proviene, da oltre tremila anni, una pietra lucente e magnifica, bianca e candida, con delle eleganti leggere striature bluastre… Noi italiani la incontriamo messa in opera perfino al centro di Roma, a Piazza di Pietra (non a caso..), dove, dopo una breve sosta tecnica nel magazzino di età imperiale che sorgeva nei pressi di via ‘Marmorata’, fu adoperata per erigere il tempio di Adriano; e poi anche nell’altro tempio grandioso di Venere e Roma, che troneggia sui Fori; e pure alle Terme di Caracalla. E perfino, sotto un sole mediterraneo ben più caldo, a Piazza Armerina in Sicilia.
Ma la incontriamo soprattutto negli edifici bizantini di Istanbul, l’antica Costantinopoli, poiché l’isola era una delle cave più ricche e più prossime alla nuova capitale imperiale fondata da Costantino nel 330 a.C.. Infatti, il segreto dell’importanza di un marmo non è solo dato dalla sua abbondanza e dal suo candore, dalla diversa grossezza o raffinatezza dei suoi granuli, dalla colorazione e dalla sfumature della sua superficie: né dalla capacità, in certi casi, di lasciarsi addirittura attraversare dalla luce. Il successo di un marmo è dato anche e soprattutto dalla sua trasportabilità. E che cosa di meglio di un’isola - in un mondo antico traversato al più da strade lastricate di basolati su cui arrancavano i buoi - di un leggero, veloce, meno dispendioso e faticoso trasporto su vascelli da carico mossi dai venti? Il costo del marmo antico, allora come oggi, era dato solo in parte dalla materia prima: il trasporto di quegli enormi blocchi che dovevano diventare non solo statue, ma colonne, pilastri architettonici di dimensioni colossali, era almeno altrettanto costoso. E, per un lungo periodo, quello di Marmara fu quello a più a buon mercato.
Fu così che un mare intero prese il nome dalla sua pietra più pregiata. O meglio, lo prese da questa isola che vi troneggia al centro. Perché qui, attenzione, le versioni sono due: duplici come la natura di un bacino che è di passaggio, tra due altri mari e tra due continenti. Se si legge l’opuscolo che un gentile funzionario in giacca e cravatta mi ha donato nel comune di Saraylar (la cittadina che sorge in pratica ai piedi delle cave), Marmara era il nome originario dell’isola, ed è da questa che avrebbe preso il proprio anche la pietra: è la versione turca della storia di questi nomi. E però è possibile dubitarne, poiché il marmo non si trova solo a Marmara, ovviamente; e le vicende del passato e la lingua ne offrono un’altra, di versione: ‘marmairo’, in greco antico, è un verbo che vuol dire ‘risplendo, riluco’; oppure, con un termine italiano quasi onomatopeico che rende ancor meglio quel suo continuo scintillare, ‘barbaglio’.
E scintilla davvero, la cittadina di Saraylar, appena mi affaccio a guardarla sulla sua piccola baia portuosa. Mi aspettavo un abitato soffocato dalle polveri e dai rumori. Errore: mi trovo a passeggiare in un quieto, lindo ed elegante lungomare; costellato sulle sue sponde dalle statue di artisti contemporanei, poiché ogni anno dal 1998 vi si tiene un Simposio Internazionale della Scultura in Marmo; e completamente rivestito (moli, frangiflutti, panchine) di quello stesso marmo abbagliante che in altri porti sarebbe invece costituito da blocchi di grigio cemento.
Alle spalle del lungomare trovo un semplice museo a cielo aperto di colonne, statue, capitelli antichi: e mai collocazione senza copertura fu più propizia ad esaltarne il lucore. Solo ancora più in là, a monte, sorgono le immense cave con i blocchi giganteschi e squadrati di questa magnifica pietra, che ancor oggi fa la ricchezza dell’isola: che produce, da sola, il 15% del marmo dell’intera Turchia; Paese che a sua volta, secondo una stima, disporrebbe del 30-40% delle risorse mondiali.
Eppure - a conferma della duplicità intrinseca, quasi genetica, di questo bacino – né l’isola, né il mare di Marmara hanno sempre avuto tale nome: perché Propontide, era il nome del mare, Proconneso quello dell’isola. E ‘proconnesio’, appunto, si chiama quel suo marmo rinomato.
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