Una legge approvata la settimana scorsa in Turchia autorizza i muftì a registrare i matrimoni. Un provvedimento che riapre il dibattito su laicità e diritti civili nel paese
La riforma del matrimonio continua a far discutere in Turchia. Presentata lo scorso luglio e tornata in esame dopo la pausa estiva, la proposta di legge - approvata la settimana scorsa dal parlamento di Ankara - che autorizza anche i muftì a registrare ufficialmente i matrimoni vede contrari associazioni per i diritti delle donne, collettivi femministi e, come accade di rado, tutti i principali partiti di opposizione (CHP, MHP e HDP). La questione è, infatti, tutt’altro che marginale e interseca due aspetti chiave dell’agenda politica dell’AKP: la famiglia e la laicità dello stato.
Il matrimonio in Turchia
Il matrimonio in Turchia è un atto registrato ufficialmente, da compiersi alla presenza di dipendenti degli uffici comunali o rappresentanti eletti a livello locale (muhtar). Leader religiosi, siano essi muftì, preti o rabbini non hanno alcuna autorità per celebrare matrimoni con valenza civile, poiché le verifiche di rito, come la maggiore età dei coniugi o eventuali precedenti matrimoni, sono di totale competenza statale.
Tale registrazione avviene di norma in uffici matrimoniali (nikah dairesi o evlendirme dairesi) presenti pressoché in ogni municipalità dove, previo appuntamento, si registra l’unione matrimoniale. Inoltre, a differenza della religione cristiana - in cui il matrimonio è un sacramento - l’Islam considera l’unione tra due individui un contratto legale a tutti gli effetti.
La registrazione di tale contratto, del resto, non è un’invenzione dell’élite kemalista: già nel 1881, durante l’Impero ottomano, una disposizione obbligava entro 15 giorni la registrazione ufficiale di tutti i matrimoni religiosi.
L’istituto del matrimonio civile introdotto con la proclamazione della Repubblica turca nel 1923, è sancito ancora oggi nella Costituzione che, all’art. 174, lo include tra le principali riforme dell’era kemalista. Le disposizioni in materia di matrimonio sono regolate dal Codice Civile, emanato nel 1926, su modello del Codice Civile svizzero, che abolisce la poligamia (art. 130) e introduce il matrimonio civile, stabilendo inoltre (art. 143) che le cerimonie religiose non possono essere celebrate prima del matrimonio civile.
La sentenza della Corte Costituzionale
Tuttavia, quest’ultima disposizione è stata emendata nel maggio 2015, quando la Corte Costituzionale, annullando una precedente sentenza del 1999, ha annunciato che il matrimonio civile non è più un requisito necessario per i cittadini che intendono sposarsi con rito religioso e ha abolito la pena (da due a sei mesi di reclusione) per il celebrante e i coniugi uniti solo da cerimonia religiosa.
La legge approvata la scorsa settimana è quindi figlia di questa sentenza. Per indagarne la ratio è necessario confrontarsi con il fiorire di matrimoni religiosi in Turchia. Il rito religioso celebrato da imam (imam-nikah) è diventato negli ultimi decenni sempre più il simbolo di uno stile di vita conforme ai precetti religiosi e di una religiosità che investe e si manifesta in ogni aspetto del quotidiano.
Vere e proprie agenzie ad hoc forniscono pacchetti matrimoniali che, a seconda del proprio budget, includono lettura del Corano, musica religiosa, esibizione di dervisci, proiezioni video, ecc. Tuttavia, i dati dell’istituto di statistica, mostrano come, nel 2016, il 97% delle coppie convolate a nozze in Turchia ha dapprima registrato ufficialmente l’unione presso gli uffici del comune e, in seguito, compiuto il rito religioso. Solo un magro 1,8% ha svolto solo il rito civile e ancora meno, l’1,1%, si è sposata esclusivamente con rito religioso.
Tuttavia, poiché tali atti non sono ufficialmente registrati, non è semplice determinare con esattezza il numero delle unioni religiose. Secondo la ministra per la Famiglia e le Politiche sociali, Fatma Betül Sayan Kaya, è necessario ridurre il numero di questi matrimoni celebrati “in segreto”, e fornire gli stessi diritti civili alle donne in caso di divorzio.
La registrazione matrimoniale e i muftì
La soluzione ora proposta e approvata è quella di consentire anche ai muftì di registrare i matrimoni, nella speranza che le famiglie più religiose acconsentano così ad ufficializzare le unioni. Questo implica la possibilità di scegliere tra il matrimonio civile, registrato da impiegati comunali, o quello sempre ufficiale, ma registrato dai muftì. Se il governo sottolinea come la legge porti di fatto ad una semplificazione delle operazioni e che a registrare saranno soltanto i muftì non gli imam, l’opposizione ha sollevato numerose criticità.
La questione è complessa, come spiega ad OBC-Transeuropa Hidayet Şefkatli Tuksal, teologa, femminista e nota attivista impegnata da decenni per i diritti delle donne: “I sostenitori del nuovo provvedimento legislativo vogliono dare la possibilità di registrare matrimoni a dipendenti pubblici, ad ufficiali religiosi che operano secondo lo stato di diritto e sono pubblici ufficiali. E’ fuori discussione che a officiare matrimoni siano dei predicatori qualsiasi.”
Uno degli aspetti più controversi è proprio lo status dei muftì. Se è vero che questi ultimi sono esperti in materie religiose, in virtù della laicità turca essi sono anche dipendenti statali, impiegati dal Direttorato per gli Affari Religiosi (Diyanet).
Nell’ultimo decennio, tuttavia, il loro ruolo di guida religiosa è andato ridefinendosi in seguito a una altrettanto discussa maggiore influenza del Diyanet nella società. Alla luce di questi mutamenti, concedere ai muftì locali e provinciali la possibilità di celebrare i matrimoni è per la Turchia più laica l’ennesima prova di una forte ingerenza della religione nelle istituzioni civili.
Visioni contrapposte
“Coloro che si oppongono alla nuova legge”, afferma Hidayet Şefkatli Tuksal, “sono contrari al fatto che il Diyanet sia sempre più vicino ai cittadini, rappresentano l’archetipo dei turchi laici. […] A mio avviso però essi non guardano la questione dal giusto punto di vista poiché, secondo i dati, più del 93% dei matrimoni oggi è già svolto anche con rito religioso. La nuova normativa unisce quindi le due procedure.”
Quello che è certo è che per evitare che matrimoni religiosi siano celebrati in assenza di controlli da parte delle autorità statali, si sarebbe potuto sensibilizzare la popolazione sull’importanza di registrare i matrimoni presso gli uffici preposti. La scelta di rendere ufficiale il matrimonio registrato dai muftì che sono sì dipendenti statali ma esperti di teologia, ha un significato chiaramente diverso: i diritti civili possono essere tutelati anche attraverso ufficiali religiosi i quali diventano così intermediari tra stato e cittadini.
I principali partiti di opposizione, alcuni avvocati che si occupano dei diritti delle donne, associazioni di donne e collettivi femministi, hanno contestato la proposta e sollevano perplessità soprattutto su due aspetti. Il primo è che questa di fatto snaturi l’istituto del matrimonio civile così come sancito nel codice civile e nella Costituzione. A loro avviso, si tratta di un tentativo di convertire leggi e istituzioni laiche in diritto islamico, favorendo una sorta di “doppio binario” che metterebbe a rischio l’uguaglianza tra i cittadini e minerebbe il principio di laicità della Repubblica.
A questo si aggiunge il timore che la nuova legge appena approvata, possa rendere più difficile il controllo su eventuali precedenti matrimoni e sulla maggiore età dei coniugi, favorendo la poligamia e il fenomeno purtroppo ancora lontano dall’essere contrastato delle spose bambine.
Hidayet Şefkatli Tuksal su questo punto è però più cauta: “Le associazioni per i diritti delle donne affermano che la nuova normativa porti alla poligamia, ma io credo che questo sia infondato, poiché chi ha questo obiettivo sicuramente lo persegue comunque, attraverso altri canali. […] Quello che ci aspettiamo è che gli ufficiali religiosi celebrino il matrimonio alle stesse condizioni degli ufficiali comunali”, conclude.
Matrimonio, diritti civili, laicità dello stato
La questione del matrimonio come istituzione civile è una delle più ricorrenti nella storia dei movimenti per i diritti delle donne in Turchia. Del resto, fino alla già citata sentenza della Corte Costituzionale del 2015, lo stesso Diyanet era impegnato a contrastare i matrimoni religiosi (imam-nikah) non registrati e gli imam invitavano le coppie a compiere la registrazione ufficiale prima del matrimonio religioso.
Negli ultimi quindici anni, il discorso pubblico e le politiche sulla famiglia sono però cambiati. Proteggere l’integrità della famiglia tradizionale composta di tre generazioni (gli anziani, i genitori e i figli) è uno dei punti chiave nell’agenda dell’AKP, fin dai suoi primi programmi elettorali.
Dal 2010, questo obiettivo si è concretizzato in politiche pubbliche: una tra tutte, la cooperazione tra il Direttorato per gli Affari Religiosi e il ministero per la Famiglia e le Politiche Sociali. Del resto, una proposta di registrare il matrimonio anche in moschea è stata avanzata già nel 2014, quando l’allora presidente del Diyanet, Mehmet Görmez, ha definito l’intera questione un dilemma costante su cui riflettere.
Come già ricordato, nel 2015, una sentenza della Corte Costituzionale ha sciolto in parte la questione, affermando che chi contrae soltanto matrimonio religioso non commette più reato. L’anno successivo, nel gennaio 2016, il parlamento turco ha istituito una commissione d’inchiesta per la “Protezione dell’Integrità della Famiglia” con l’obiettivo di indagare le cause che favoriscono il recente aumento dei divorzi.
Tale commissione, immediatamente soprannominata “Commissione sul divorzio”, ha pubblicato un rapporto a maggio 2017, scatenando dure reazioni di associazioni e collettivi femministi convinti che più che il tasso di divorzio, il governo debba analizzare i casi di femminicidi e le violenze sessuali compiute contro le donne.
Approvata dopo una lunga e accesa discussione, la proposta di rendere ufficiali i matrimoni registrati dai muftì mostra, nella sua complessità, le trasformazioni e le dinamiche in atto in Turchia.
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