La Turchia accoglie attualmente più di due milioni di profughi siriani ma non concede loro lo status di rifugiati. Questo e la dura vita che conducono li spinge a tentare la strada verso l'Europa
È durata dieci giorni l’odissea dei profughi siriani che, dalla frontiera turca, hanno tentato senza successo di passare in Grecia. Gli ultimi, circa cinquecento persone rimaste ad Edirne, nel palazzetto dello sport asseganto loro dal prefetto della città, hanno lasciato la città tracia giovedì mattina. I più tenaci hanno opposto resistenza qualche ora in più alle forze dell’ordine che li volevano sui pulmini pronti a partire, e sono stati condotti nel centro di espulsione di Edirne. Di quelli che hanno accettato di andare via spontaneamente, una parte è tornata nelle località di provenienza, altri si sono diretti verso la costa egea, dove ogni giorno decine di profughi tentano di raggiungere le isole greche via mare, rischiando la vita.
Speranze via terra
È stata proprio l'accresciuta consapevolezza del pericolo della traversata via mare a portare i migranti a intraprendere una nuova rotta verso l’Europa. Un pericolo di cui l’immagine del piccolo corpo di Aylan Kurdî di Kobane, gettato sulla spiaggia dalle onde nelle vicinanze della località turistica turca di Bodrum, lo scorso agosto, è diventato un simbolo a livello mondiale. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), sarebbero almeno 224 le persone che hanno perso la vita dall'inizio del 2015 tentando di attraversare l’Egeo. Lo scorso 20 settembre, un'altra imbarcazione di fortuna è affondata al largo dei Dardanelli, causando la morte di 13 adulti e di un bambino.
Ma a incoraggiare i profughi a tentare la “via di terra” sono state anche le recenti dichiarazioni del governo tedesco, che si è detto disponibile ad accogliere diverse centinaia di migliaia di profughi. Lunedì 14 settembre, col passaparola diffuso tramite i social media, centinaia di profughi hanno cominciato ad affluire ad Edirne, nella Tracia turca, con l’obiettivo di passare in Europa. Molti sono arrivati in città con i pullman, altri a piedi, attraverso l’autostrada, altri ancora sono rimasti bloccati alla stazione dei pullman Bayrampaşa di Istanbul.
Le autorità turche hanno ingiunto alle società di trasporto di non vendere biglietti ai siriani. E nell’ultima settimana, i profughi che hanno tentato di resistere alle pressioni avviando anche uno sciopero della fame, sono stati gradualmente “convinti” a lasciare gli accampamenti. Ma a chiudere definitivamente la porta alle speranze dei profughi di Edirne, sembra essere stata la decisione finale del Consiglio europeo di ridistribuire i 120mila migranti già presenti sul territorio europeo, che ha di conseguenza sbarrato la strada ai nuovi arrivi.
Tornare alla “vita normale”
Venerdì scorso, anche il premier Ahmet Davutoğlu, che aveva ricevuto i rappresentanti dei gruppi di siriani in attesa a Istanbul e ad Edirne, li aveva esortati a “tornare alla vita normale”. Ma forse è proprio a causa della “vita normale” condotta dai siriani in Turchia che moltissimi cercano di arrivare in Europa. Una vita dove l’integrazione effettiva nella società risulta limitata per vari motivi, primo fra tutti per il fatto che Ankara non riconosce ai profughi lo status di rifugiato.
Negli ultimi quattro anni Ankara ha accolto oltre due milioni e 200mila profughi, destinando loro una spesa di oltre 6 miliardi di dollari ed allestendo 24 campi di accoglienza in dieci province al confine con la Siria. Tuttavia, i profughi (non solo quelli siriani, ma tutti quelli che arrivano dall’Est), per via della riserva geografica posta dalla Turchia alla Convenzione di Ginevra del 1951 - di cui Ankara è firmataria - non possono vedersi riconoscere lo status di rifugiato, ma vengono invece definiti “ospiti”. Si tratta quindi di persone che, secondo una normativa del 2014, si trovano sotto “protezione temporanea”.
Come sottolineano studi recenti sulla questione, la “protezione temporanea” permette ai profughi di avere accesso ai servizi sanitari, all’istruzione e agli aiuti sociali, ma non un permesso di soggiorno valido a tutti gli effetti. “La legislazione attuale affronta la questione dei siriani come un problema transitorio e non mira ad adottare un approccio basato sul riconoscimento dei diritti”, afferma la studiosa Zümray Kutlu.
Diritti (solo) sulla carta
Spesso è anche il groviglio burocratico a impedire agli “ospiti siriani” di accedere ai servizi offerti loro dalle autorità, e non ultimo l’ostacolo linguistico. A parte i circa 250mila profughi insediati nei campi, che godono in maniera diretta delle agevolazioni dello stato, circa 2 milioni di siriani devono organizzare la propria vita autonomamente. Dal lavoro all’istruzione, fino ad arrivare alla sanità alcuni diritti concessi nella teoria, non sembrano trovare però un riscontro nella realtà.
La normativa attuale non agevola l’inserimento dei siriani nel mondo del lavoro. Ottenere un permesso di lavoro, possibile a livello teorico per i profughi regolarmente iscritti al database del governo e solo per alcuni ambiti lavorativi stabiliti dal Consiglio dei ministri, nella vita reale risulta quasi impossibile. La conseguenza è che molti siriani sono costretti a lavorare in nero, sfruttati e con paghe che risultano ridotte fino all’80% rispetto a quanto percepito da un cittadino turco per lo stesso tipo di attività. E si tratta di una situazione che coinvolge anche i minori.
L’istruzione dei bambini siriani è un altro problema importante. Diversi studi indicano per i bambini che vivono fuori dai campi un tasso di scolarizzazione che si attesta tra il 14% e il 17%. E anche per l’accesso alla sanità, anche se i servizi di base sono garantiti e gratuiti per i cittadini siriani registrati nella banca dati governativa, gli stessi profughi denunciano che l’approccio dei singoli ospedali tende ad essere variabile e soggettivo.
“Nessuno è più sicuro in Siria”
E mentre nelle città altamente popolate come Istanbul l’integrazione risulta più facile, nei centri più piccoli si registrano fenomeni di intolleranza. I siriani vengono ritenuti responsabili per l’aumento dei prezzi degli affitti e della penuria di lavoro – visto che accettano di lavorare per meno. “I siriani non vogliono prendere gli autobus e parlare in arabo per paura di esporsi”, spiega Şenay Özden, attivista e ricercatrice sul campo che fino a pochi giorni fa si trovava nel quartiere Basmane di Izmir, altra località centrale per le partenze dei profughi verso la Grecia.
“Una novità che ho notato”, ha spiegato la studiosa in un’intervista ad Açık Radyo riguardo ai profughi che si trovano in quell’area, “è che molti siriani – ma ci sono anche numerosi pachistani, iracheni, egiziani, etiopi e altri ancora – risultano giunti da poco in Turchia, e da regioni come Damasco o dalle zone costiere che si trovano sotto il controllo del regime siriano. Quindi non fuggono perché si trovano sotto la sua minaccia. Molti sono dipendenti statali e hanno lasciato il posto fisso per venire qui. Questo dimostra che oramai nessuno di sente al sicuro in Siria”, ha aggiunto.
Mentre il numero dei profughi presenti in Turchia sembra ancora destinato a crescere la Commissione europea ha annunciato lo stanziamento di fondi destinati ad Ankara per facilitare l’accoglienza dei profughi al di fuori dai confini dell’UE. L’intenzione, anche alla luce dell’Accordo di riammissione siglato nel 2013 tra Ankara e Bruxelles (dal quale la Turchia si aspetta in cambio la libera circolazione dei propri cittadini in Europa), sarebbe quella di far sì che i profughi restino all’interno del territorio turco, utilizzato come una sorta di “zona cuscinetto”. Ma quanto queste misure potranno servire ad aiutare i profughi che vivono fuori dai campi ad integrarsi nella società turca, resta l’interrogativo più grande.
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