Un violento terremoto ha colpito il 30 ottobre scorso Turchia e Grecia. La furia dell’antico dio Poseidone, che Omero chiamava ‘lo Scuotiterra’ , ha scosso anche i ricordi che vanno ad unirsi, quasi a sovrapporsi, laceranti e nostalgici, al corale compianto per le vittime
Il Caso e la Necessità delle forze della natura scatenano in questo autunno del 2020 un violento terremoto sottomarino in quel tratto di mare fisicamente frastagliato, e storicamente travagliato, che si apre tra Grecia e Turchia all’altezza di Smirne. Morti e feriti vengono ricercati con affanno sotto palazzi sbriciolati di alcuni sobborghi della metropoli. L’Attica e l’Anatolia, ai due lati opposti dell’Egeo, rabbrividiscono di sussulti improvvisi. Perfino un non trascurabile maremoto, fenomeno poco frequente nei nostri mari, si scaglia sulla prospiciente isola greca di Samo.
Ma per alcuni di noi, confinati come tanti dalla crisi epidemica entro limiti fisici via via più ristretti (il Ministero sconsiglia, a noi italiani, ‘i viaggi all’estero non necessari’), la furia dell’antico dio Poseidone - che Omero chiamava ‘lo Scuotiterra’ - questa volta ha aperto una faglia anche nella memoria: da cui fuoriescono a caterva ricordi indelebili di viaggi passati, che vanno ad unirsi, quasi a sovrapporsi, laceranti e nostalgici, al corale compianto per le vittime.
Anzitutto, Smirne, quella che oggi è la turca Izmir, dovrebbe essere nel cuore di tutti noi europei perché, datemi retta, è la patria di Omero. È vero: ben sette tra isole e città se ne contendono i natali da ventotto secoli, e nessuno ha mai risolto la disputa. Ma, al di là delle ipotesi degli storici e dei filologi, è proprio vero che in alcuni casi nei posti, per capire come stanno le cose, bisogna solo andarci. Per esempio nel quartiere di Bayraklı, quello dove il 30 ottobre si sono verificati i danni maggiori. È il luogo in cui sorgeva l’antica Smyrna, la città greca: e prima ancora che vi arrivassero a colonizzarla gli Ioni dall’Ellade, quasi certamente fu pre-ellenica, cioè anatolica; come anatolica era la contemporanea Troia, un paio di centinaia di km. più a nord. Me lo ricordava con fierezza, 15 anni fa, l’archeologo turco che sovrintendeva agli scavi della zona, un signore corpulento e gentile, che invece di allontanarmi dal cantiere chiuso ai visitatori, si lasciò commuovere perché gli dissi che ero venuto da Roma proprio per visitare Smirne e Troia; e mi spiegò che quella triplice cerchia di mura, più o meno grande come il Palatino, racchiudeva sì quella che fu la più antica polis dell’Occidente, ma il suo abitato più antico risaliva ad almeno due millenni prima. Era un uomo in là con gli anni, e ricordo che non conosceva una parola d’inglese: a me per fortuna, che avevo appena iniziato a studiare il turco, fece da interprete un giovane scavatore; si fermò ad aiutarmi con il mento appoggiato sulla mano che reggeva l’estremità di una pala.
Prima di avvicinarmi a quegli scavi ero andato ad ammirare e a fare foto su Smyrna dall’alto, dalle stradine di un vecchio quartiere soprastante (la metropoli, tutta, è circondata da dolci colline). In breve individuato come forestiero (la zona è assolutamente priva di turismo), mi si mise alle calcagna un ragazzino di undici anni, che, paziente con il mio pessimo turco, mi domandava chi ero e da dove venivo e che cosa facevo nella vita e come mi chiamavo e quanti anni avevo, ecc. ecc., dopo essersi presentato a me come usavano fare, nell’Odissea, i personaggi venuti a contatto con un ospite straniero. Mi scortò dappertutto, chiacchierone, curioso e gentilissimo, fino ai confini della sua zona, per poi congedarsi con un ‘buone vacanze’, che ancora ricordo. Lo ricordo perché, curiosamente, pensai che anche un giovanissimo Omero, se era davvero nato lì, si sarebbe comportato esattamente così, ospitale e garbatamente curioso, con un marinaio che fosse venuto d’oltremare, quasi ad alimentare in tal modo la propria nascente fantasia di poeta.
Erano quelli del mio viaggio in Ionia gli anni promettenti in cui la Turchia sembrava dover essere ammessa entro breve tempo nell’Unione europea, grazie a un’economia che andava a gonfie vele e perché l’islamismo e il nazionalismo radicali, oggi risorgenti, non dico non esistessero più, ma sembravano andati come in letargo.
Pochi anni prima Ferzan Özpetek, con il suo film di successo Hamam, ci aveva fatto sognare - con gli occhi di un ancor giovane attore, Alessandro Gassman - le bellezze e le delizie sorprendenti di un paese che si apriva, non ancora ricco ma intraprendente, all’Occidente. Ma l’affascinante bagno turco in rovina ricordato nel titolo, che il protagonista si propone di restaurare abbandonando la sua precedente noiosa esistenza italiana, si trovava pur sempre ad Istanbul, una città già moderna, emblema di quella Turchia che rispecchiava l’Europa. Del tutto diversa dall’altra, quella che in cui mi imbattei in una mia breve 'ricognizione' compiuta nella Ionia, solo di qualche anno antecedente il più lungo viaggio.
Seferhisar… il solo nome, dolce e gentile come uno sbuffo di vento, di questa cittadina nelle cui acque, assicurano i sismologi, si è verificato l’epicentro del terremoto del 30 ottobre, mi fa ancora trasalire. Perché fu lì che trascorsi la prima sera e la prima notte in cui mi trovai calato in un paese che non conoscevo quasi per nulla, di cui avevo letto molto nei libri, ma di cui in pratica avevo frequentato solo la storia dei secoli e dei millenni passati. Non vi era alcun monumento degno di nota, a Seferhisar, nessun locale appariscente. Solo una pullulante, travolgente vitalità: e però garbata, aggraziata, che si prolungava fino a tarda sera nelle piccole locande di pidè (la pizza turca) e nei berber frequentati da soli uomini come fossero piccoli club o centri sociali, con il tè forte e profumato che ti veniva offerto da chiunque, per ospitalità e gentilezza, in qualsiasi negozio o bottega tu entrassi. E quasi, purtroppo, non c’era neppure alcun albergo, nella Seferhisar di allora…
Niente turismo di massa, ovviamente, e neppure turismo tout court… Fu lì che provai per la prima volta la sensazione straniante ma in fondo anche un po’ divertente di trovarmi in un luogo ove nessuno parlava alcuna delle lingue che allora padroneggiavo: ricordo quel primo albergo periferico e un po’ desolato, dove un giovane portiere malvestito e dall’aria innocua, ma dall’inquietante nome di Gengis, richiuse dietro di sé la porta della nostra camera lasciandoci lì ammutoliti, a guardare due letti ricoperti solo da uno strato di gommapiuma, senza ombra di lenzuolo. Dopo un primo pomeriggio caldissimo passato a cercare di riprenderci dal viaggio stando sdraiati su quel giaciglio atrocemente appiccicoso, fu solo al nostro rientro la sera che riuscimmo, mimando a gesti un lenzuolo (cosa quasi impossibile, a pensarci bene), a salvare almeno la notte. Forse il povero Gengis se ne era semplicemente dimenticato. O forse, chissà, pensava che noi ‘barbari’ venuti dall’Occidente non ne facessimo uso..
E poi, pochi chilometri più a sud, all’estremità di un promontorio che è parco nazionale, immerso nel verde (dove nel 479 a.C. si svolse una battaglia navale decisiva tra Greci e Persiani), ecco Samo, la grande isola dell’Egeo. Colpita anch’essa da questo terremoto che ha affratellato, volenti o nolenti, due nazioni tornate oggi al culmine dell’attrito geo-strategico per il possesso delle acque territoriali. Sembra un contrasto politico quasi inevitabile, quando vedi che Samo quasi si tocca, da qui. Così come, appena un anno prima, sdraiato al sole di una spiaggetta greca dalla sabbia candida sulla sponda dell’isola, mi sembrava che la costa turca fosse lì a poche bracciate di nuoto. Con quello scoglio sormontato da un faro nel mezzo dello stretto – chissà a chi dei due apparteneva – che invitava proprio a intraprenderla, quella traversata (che oggi tanti migranti compiono nottetempo con mezzi di fortuna), promettendoti di poter issarti sulle pietre scaldate dal sole, per ristorarti un poco e riprender fiato a metà tragitto.
Ma fu quando vidi il mio primo tramonto dalla passeggiata sul lungomare di Smirne, il Kordon, che ebbi l’illuminazione definitiva su Omero. Chi ha letto i suoi poemi sa che il mare vi viene definito, con una formula ricorrente su cui gli studiosi si sono da sempre interrogati, ‘dal colore del vino’. Orbene, mentre i palazzi e i colli della metropoli alle mie spalle si tingevano di rosa, e le acque del grande golfo che li lambisce si increspavano sotto un vento allegro e corroborante, ecco che, come per un subitaneo cambio di luci su un immenso palcoscenico, lo specchio di mare tutt’intero trascolora, appena prima che il sole si nasconda al di là del monte Mimante. E diventa - mentre mi affretto a fotografarlo per documentare quel momento che capisco essere unico - come non avevo mai visto alcun mare prima: davvero ‘del colore del vino’.
Ovviamente, che in questa città piagata nei giorni scorsi dal terremoto sia nato Omero, e quindi si trovi l’origine della cultura e della letteratura che hanno marcato la nostra piccola parte di mondo, sono solo impressioni e supposizioni. Ma l’archeologia, la storia, la politica e l’attualità non sono impressioni. E che in questa faglia agitata, che su queste acque e tra queste terre sia in gioco tanto di noi - perché noi siamo culturalmente ‘nati’ qui - è un fatto che non andrebbe mai dimenticato: neppure in tempi di pandemie, di attentati di matrice estremistico-religiosa, di conflitti per le risorse sottomarine e di acque territoriali rimesse in discussione. Tra questi stretti bracci di mare, nei vecchi vicoli di Smirne, così come nelle dolci e tiepide notti di Seferhisar, si aggrovigliano, si tendono e vanno assolutamente sciolti i nodi che determinano, nel bene e nel male, tanta parte del nostro futuro, così come è avvenuto per il nostro passato.
Il 30 ottobre un violento terremoto di magnitudo 7.0 con epicentro nel Mar Egeo, ha colpito Grecia e Turchia, provocando la morte di almeno 85 persone e il ferimento di più di mille. La maggior parte dei danni si è verificata a Izmir, al largo della costa egea della Turchia. Alla scossa è seguita un’onda di tsunami.
Il sisma è stato avvertito fino ad Atene e Istanbul.
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