© danielo/hutterstock

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Il Parlamento europeo nei giorni scorsi ha approvato una risoluzione per chiedere la sospensione formale dei negoziati con la Turchia. Ma a chi giova davvero la sospensione?

21/03/2019 -  Chiara Maritato

Il 13 marzo 2019 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione in cui chiede alla Commissione e al Consiglio di sospendere formalmente le trattative per l’adesione della Turchia all’Unione europea. Sebbene senza effetti vincolanti, la votazione – approvata in parlamento con 370 voti a favore, 190 contro e 143 astenuti - ha riacceso i riflettori su un processo iniziato nel 2005 e che oggi appare in stallo e privo di una strategia.

La sospensione dei negoziati con Ankara è stata elaborata nel Rapporto sulla Turchia presentato dalla parlamentare socialista olandese Kati Piri e approvato dal Comitato Parlamentare per gli Affari Esteri (AFET) il 20 febbraio 2019. Il Rapporto esprime preoccupazione per una profonda erosione dello stato di diritto e il deterioramento dei diritti umani e condanna misure sproporzionate e arbitrarie in materia di libertà di espressione e libertà di stampa. Durante la conferenza stampa che ha preceduto il voto in parlamento, Kati Piri si è espressa contraria ad una chiusura totale dei negoziati, come invece proponeva un emendamento dell’estrema destra.

Secondo Piri, la richiesta di sospensione ha due intenti. Il primo è quello di “fermare questa farsa” e fare pressione sui governi UE perché si rendano conto delle violazioni in atto in Turchia non solo quando queste riguardano i loro connazionali. Con questa risoluzione, l’auspicio è che il Consiglio elabori una strategia che vada oltre la situazione di stallo attuale e che condizioni ogni apertura dei negoziati al rispetto dei diritti umani e dei valori europei. Il secondo obiettivo è “di stare al fianco della popolazione turca” garantendo che il dialogo continui.

Ömer Çelik , portavoce del partito al governo, AKP, ed ex capo negoziazioni con l’UE, ha duramente criticato il voto, definendo il rapporto come “nullo, completamente privo di senso e disdicevole”. Il ministro degli Affari Esteri turco e attuale capo delle negoziazioni con l’UE, Mevlüt Çavuşoğlu, ha commentato che il voto è frutto di un parlamento “vittima di ideologie estremiste”, auspicando che dopo le elezioni del maggio 2019 l’eurocamera possa rinvigorire il processo di integrazione.

Una risoluzione attesa

La risoluzione del Parlamento europeo è tutto fuorché un fulmine a ciel sereno. Le trattative sono di fatto congelate dal 13 dicembre 2016 quando il Consiglio dell’UE ha stabilito che non sarebbero stati aperti nuovi capitoli sull’adesione e ha sollevato serie preoccupazioni in merito allo stato di emergenza e alla concomitante ondata di arresti e licenziamenti. Dal dicembre 2016 ad oggi lo stallo dei negoziati si è svolto in un clima di diffidenza se non di insofferenza reciproca. Non solo il Parlamento si è espresso con una simile richiesta di sospensione già nel luglio 2017, ma anche la Commissione europea nell’ultimo Rapporto, dell’aprile 2018, ha ribadito che “la Turchia si è allontanata dall’Unione europea”.

In modo ancora più esplicito, il Consiglio dell’UE del 26 giugno 2018 ha reso noto che “i negoziati sono fermi, che nessun nuovo capitolo si aprirà e che non è previsto nessun impegno in tema di unione doganale tra UE e Turchia”. La richiesta di sospensione dei negoziati votata dal Parlamento europeo rispecchia quindi 4 anni di stallo e rilancia il dibattito su eventuali scenari, più realistici (dei 35 capitoli che costituiscono i negoziati uno solo è stato completato), per la candidatura della Turchia. Un esempio è quello della “partnership strategica” su determinate aree di interesse comune.

Tuttavia, il voto arriva a ridosso di due importanti summit: la terza Conferenza per il futuro della Siria e della regione organizzata congiuntamente da UE e ONU, che si è tenuta dal 12 al 14 marzo; e il Consiglio di Associazione UE-Turchia, svoltosi il 15 marzo.

L’accordo sui migranti

Durante la Conferenza la Turchia è stata elogiata per la capacità di cooperare con l’UE nel fornire protezione e servizi a circa 3.6 milioni di siriani. Del resto, se i negoziati per l’adesione sono entrati in un limbo dal dicembre 2016, il 18 marzo dello stesso anno l’accordo Turchia-UE ha sancito una “cooperazione strategica” che vede la Turchia un paese terzo “sicuro ” dove i diritti fondamentali dei rifugiati e dei richiedenti asilo sono protetti in ottemperanza agli obblighi internazionali.

Quella dell’UE appare quindi una visione incoerente e priva di profondità poiché alcuna condizionalità sul rispetto dei diritti umani in Turchia è stata posta in materia di sicurezza e migrazione.

Il secondo incontro, il Consiglio di Associazione UE-Turchia è in tal senso ancora più evocativo. Dopo 4 anni, il 15 marzo si è riunito questo organo, il più alto responsabile per l’adesione. L’alto rappresentante UE per gli Affari Esteri Federica Mogherini e Johannes Hahn, Commissario Europeo per Allargamento hanno incontrato il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavusoglu. Entrambe le parti hanno sottolineato la volontà di riprendere i negoziati e Çavusoglu ha affermato che la Turchia è pronta ad attuare nuove riforme aventi come ancora l’UE.

È evidente che né la Turchia né l’UE vogliono assumersi unilateralmente la responsabilità di porre fine ai negoziati. Resta da chiedersi quanto impegno sarà riposto da parte di entrambi per riprendere in mano i capitoli di adesione, in particolare quelli sui visti e l’unione doganale. Un altro interrogativo riguarda le promesse di riforme in materia di giustizia.

Di certo, il futuro del processo di integrazione della Turchia dipende da due importanti appuntamenti elettorali: da una parte le elezioni locali del 31 marzo nel paese, un test per Erdoğan al punto che egli stesso le ha definite una “questione di sopravvivenza nazionale ”; dall’altra, le elezioni europee del 23-26 maggio. I dubbi sulla continuità degli attuali orientamenti comunitari aleggiano tra il fantasma della Brexit, l’avanzata delle destre e lo spauracchio dei populismi.

Infine, va osservato che la risoluzione per la sospensione dei negoziati giunge pochi giorni dopo la messa in stato di accusa nei confronti di Osman Kavala , uomo di affari ed esponente di spicco della società civile turca in carcere dal novembre 2018.

La vicenda di Kavala, accusato di aver tentato, insieme ad altri 15 attivisti, di rovesciare il governo durante le proteste di Gezi Park del 2013, è nota a livello internazionale ed è menzionata nel Rapporto di Kati Piri. In tal senso, la risoluzione chiede che i fondi dedicati alla pre-adesione siano diretti alla società civile, a coloro che difendono i diritti umani e ai giornalisti perché aumentino le possibilità di confronto e informazione sui principi democratici.

A chi giova?

Non è chiaro però quanto e come la sospensione dei negoziati UE-Turchia contribuisca a dimostrare vicinanza alla popolazione turca e mantenere aperto un dialogo. Quale guadagno politico può trarre l’opposizione dall’affossamento dei negoziati con l’UE?

Giornalisti, attivisti e accademici che negli ultimi anni hanno ingrossato le carceri turche sanno bene che la condizionalità è un valore quando non è ad intermittenza. Lo ‘strabismo’ dell’UE, come lo definisce Sezai Temelli - co-leader con Pervin Buldan del Partito Democratico dei Popoli (HDP) - ha permesso alla Turchia, nella sua veste di (sempre meno) candidata e (sempre più) partner strategico, di incassare ingenti somme di denaro. Il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), principale partito di opposizione, pur attribuendo la responsabilità della sospensione dei negoziati all’AKP, accusa anche i leader europei che hanno posto il veto all’apertura dei capitoli sui diritti fondamentali e libertà. Il CHP, che si dimostrò scettico all’epoca dell’apertura dei negoziati, sa che il suo elettorato è disilluso dall’UE.

A giovare di questo opportunismo è soprattutto l’AKP. Sin dalla sua fondazione, nel 2001, il partito è stato fortemente legato all’avvio dei negoziati con l’UE. L’AKP non solo ha potuto utilizzare le pressioni dell’UE per eliminare ogni ostacolo alla libertà religiosa, in particolare il diritto delle donne di indossare il velo.

L’appoggio dell’UE contro la controparte laicista rappresentata dall’esercito, la magistratura e il CHP ha permesso inoltre di guadagnare il consenso di elettori liberali. Negli ultimi anni, tuttavia, l’elettorato liberale ha progressivamente abbandonato il partito, e un forte scetticismo verso l’Europa è andato definendosi sempre più nei termini di uno scontro di civiltà.

Il governo turco ha duramente criticato la mozione del Parlamento europeo, ma sa che presentarsi come vittima di un’Europa in cui regna l’islamofobia rientra in una narrazione capace di rinsaldare il suo elettorato più conservatore e di destra.


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