Con una mossa inaspettata, l'establishment politico turco ha di nuovo lanciato segnali d'apertura alla lotta armata curda. Ma quali i motivi profondi di questa strategia? Ne abbiamo parlato col sociologo Mesut Yeğen
A inizio di ottobre Devlet Bahçeli, segretario generale del partito nazionalista MHP, ha stretto la mano di più parlamentari del partito filo-curdo DEM, ex-HDP. Un gesto insolito a cui è seguito un discorso dirompente pronunciato il 22 ottobre, nel quale ha invitato il leader e fondatore del PKK Abdullah Öcalan a dichiarare la fine della lotta armata dal podio del parlamento. Come giudica questo sviluppo?
Non ho alcun dubbio che si sia trattato di un discorso storico: parliamo del leader del MHP, uno dei politici più influenti del paese, un uomo di destra, non si sarebbe esposto in quel modo solo per mere ragioni di convenienza politica.
Tra il 2013 e il 2015 c’è stato l'ultimo tentativo di trattative tra lo stato turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il cosiddetto "processo di pace", conclusosi purtroppo negativamente.
L'assedio della cittadina di Kobane da parte dell'Isis e la chiusura dei confini tra Turchia e Siria hanno creato tensione all'interno di alcune frange di simpatizzanti del movimento curdo, che sono sfociate in proteste e sommosse in più province del paese.
L'apertura di Bahçeli indica la volontà del governo turco di tornare al tavolo delle trattative, una sorta di paradosso visto il crescente autoritarismo, acuitosi dopo gli eventi di Gezi e il tentato colpo di stato del 2016.
Qual è secondo lei la ragione di questa ennesima "apertura curda"?
La Turchia teme un deterioramento della stabilità regionale, e per prevenire ogni evenienza ha bisogno innanzitutto di riappacificarsi con i curdi che vivono nel paese e in quelli confinanti. La spropositata reazione dello stato israeliano all'attacco terroristico compiuto da Hamas il 7 ottobre scorso è vista con preoccupazione da Ankara, la guerra si è estesa al Libano e persino all'Iran.
Un indebolimento della Repubblica Islamica potrebbe galvanizzare il braccio armato del PKK in Iran (PJAK) e in Iraq (PÇDK), uno scenario che la autorità turche vogliono cercare di prevenire a tutti i costi, e per far ciò il ruolo di Öcalan è fondamentale.
È una decisione non priva di rischi per il governo, alcuni centri di potere all'interno dell'esercito e del movimento nazionalista di certo non gradiscono questi sviluppi.
Quanto potere è realmente in grado di esercitare Abdullah Öcalan?
Öcalan rappresenta ancora oggi una figura di riferimento per il PKK, nonostante sia rinchiuso dal 1999 nel carcere di massima sicurezza di İmralı, un isolotto nel Mar di Marmara. In questo lasso di tempo l'organizzazione da lui fondata ha sì continuato ad esistere, e il suo prestigio rimane intatto. Certo, l'abbandono della lotta armata, se davvero Öcalan pronuncerà queste parole, potrebbe non essere accettata dal PKK nella sua interezza, la guerriglia farà le sue valutazioni in base alle concessioni dello stato turco.
Come giudica l'eventuale riscrittura della costituzione turca? Quanto potrebbe influenzare il nuovo processo di pace?
La costituzione vigente fu redatta nel 1982 dalla giunta militare che effettuò il colpo di stato del 1980, in seguito alla quale la Turchia fu governata dal generale Kenan Evren per quasi un decennio.
Da qualche anno si discute di una nuova costituzione, e certamente il presidente Recep Tayyıp Erdoğan ha tutto l'interesse che questo piano vada a buon fine. Allo stesso tempo non è così fondamentale per il futuro politico del leader turco.
Lo stato turco ha sentito l'esigenza di offrire la pace in primis per ragioni di sicurezza interna e di vicinato, la costituzione e le relative concessioni ai curdi sono una conseguenza, un mezzo, non la ragione principale.
Quali sono le principali richieste del DEM sulla riscrittura di una nuova costituzione? A quali cambiamenti aspira il popolo curdo?
Esistono delle aspettative che non necessitano di una modifica costituzionale, ma solo di un cambio di atteggiamento da parte del governo, penso ad esempio alla liberazione di taluni esponenti politici e della società civile.
Le richieste sono note: quella più pressante è il riconoscimento del curdo come lingua nazionale e la possibilità di ricevere un'educazione in lingua, ottenendo così uno status alla pari a quello del turco.
I curdi chiedono anche che venga riconosciuta la loro identità e quella di altre etnie e fedi che convivono all'interno dei confini della repubblica. Infine l'implementazione del federalismo nelle aree a maggioranza curda e una maggior rappresentazione all'interno della macchina statale.
Il 23 ottobre un gruppo armato (Battaglione degli Immortali) legato al PKK ha rivendicato l'attentato alla sede dell'Industria Aerospaziale Turca (Tusaş) nei pressi di Ankara. In mattinata Ömer, parlamentare del DEM e nipote di Öcalan, aveva avuto il permesso di visitare lo zio in carcere, dopo 43 mesi di isolamento. Solo una coincidenza?
È stato un evento sul quale si potrebbe facilmente costruire una teoria del complotto. Personalmente credo si sia trattato di un attacco armato organizzato in precedenza, ma ammetto sia possibile sostenere che all'interno del PKK c'è chi non gradisce l'abbandono della lotta armata, e con questa operazione si è voluto confondere le acque e creare tensione tra le parti.
Come sociologo come definisce l'elemento curdo? E quanto è cambiata la società curda in Turchia nel ventennio di Erdoğan?
Dal punto di vista sociologico è innegabile che esista una nazione curda, sebbene non abbia una stato proprio. I curdi vivono e sono la maggioranza in determinate aree di quattro paesi della regione: Turchia, Siria, Iraq e Iran. In ognuno di essi c'è un rapporto diverso con l'autorità centrale, ma ciò che li lega è una comune consapevolezza identitaria.
La società curda nell'ultimo ventennio ha sviluppato una maggiore coscienza politica, oltre a conoscere meglio la propria storia, i torti subiti e gli errori commessi.
In Turchia è proseguito in maniera costante il processo di emigrazione dai villaggi alle città. L'inurbamento ha creato un'interessante dicotomia: da un lato ha accentuato il processo di assimilazione nella società turca, dall'altro si è sviluppata una necessità di vedere riconosciuta la propria identità sia a livello politico che culturale.
Si parla meno curdo ma ci si sente più curdi, una contraddizione che ho rilevato nei miei studi sul campo.
Mesut Yeğen, sociologo, commentatore politico e direttore del programma di democratizzazione presso il think tank "Reform Institute". I suoi scritti, pubblicati dalla casa editrice "İletişim", si focalizzano sulla relazione tra nazionalismo turco e questione curda.
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