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Aysel cresce credendo in un messaggio di liberazione - quello della nuova Turchia di Atatürk - ma nel corso della sua vita non fa altro che decostruire quella narrativa nazionale, per scoprirla essere una prigione. Una recensione

20/07/2018 -  Francesco Marilungo

Chiudere la porta, spegnere le luci, tirare le tende di una stanza d’albergo, spogliarsi e coricarsi. Stendersi ad aspettare la morte. E nel frattempo, scrostare con le unghie le ferite di una vita, illuminare i frammenti che ricompongono il percorso di una donna dentro a quello di un paese: la Turchia. Aysel appende alla maniglia il cartello “non disturbare” e inizia in apparente solitudine l’attesa sfiancante della morte. A non lasciarla sola però sono il piccolo ammasso di cellule che le sta crescendo in grembo e il passato.

È coraggiosa e forse un po’ anacronistica, l’operazione de "L’Asino d’oro edizioni" di portare in Italia un romanzo bellissimo, ma difficile, nella sempre ottima traduzione di Fulvio Bertuccelli. Difficile perché per goderne appieno bisognerà un po’ conoscere la storia della Turchia. Soprattutto della giovane Turchia, quella appena nata nella prima metà degli anni venti, quella che trainata dall’entusiasmo modernista, laico e nazionalista del fondatore Atatürk vede schiudersi davanti a sé le proprie magnifiche sorti e progressive.

Le riviste e i giornali cantano le lodi della nazione turca, eppure faticano ad arrivare nei villaggi di provincia; gli insegnanti di scuola, ricolmi dell’ardore patriottico e consci dell’alto compito che la rivoluzione affida loro, cercano d’inculcare valori ‘moderni’ ai figli dei pastori, dei contadini, degli artigiani, dei piccoli commercianti, eppure le recite scolastiche non sempre filano lisce come dovrebbero; l’apparato burocratico pubblico prolifera per portare il messaggio fin nei recessi più lontani della madrepatria, ma diventa presto terreno di confronto per arrampicatori sociali, piccole meschine ambizioni. Insomma non sempre la realtà è all’altezza dei rosei disegni della dottrina nazionalista.

Da una maldestra recita scolastica fino a quel letto d’albergo di Ankara dove aspetta che passi a prenderla la morte, Aysel traccia il sentiero accidentato della femminilità turca in quegli anni, la storia di un paese narrata da dentro al corpo femminile. Nella Turchia che introduceva il suffragio universale ben prima di molti paesi europei, Italia compresa, essere donna era una grande responsabilità. Così almeno aveva indicato il Padre della Patria, che voleva per la nazione madri libere, istruite, emancipate e acculturate.

Aysel, cresce credendo in quel messaggio di liberazione, viaggia, studia a Parigi, diventa un’accademica; eppure questo suo lungo ripercorrere discorsivo della sua vita dentro quella del paese, non fa altro che decostruire quella narrativa nazionale per scoprirla essere una prigione, una responsabilità imposta sul corpo delle donne all’interno di una società maschile non pronta ad accogliere e ad accompagnare questa rivoluzione di genere. Sintetizza Aysel alla fine del libro: “Per essere onesti e giusti in ogni circostanza, occorre che ogni circostanza sia onesta e giusta”.

Quel letto d’albergo in cui Aysel si trova sospesa fra l’attesa della morte e il sorgere della vita nel suo grembo, assomiglia un po’ ad un lettino da psicanalista sul quale è stesa assieme ad Aysel, tutta la metà femminile della Turchia, indecisa fra l’essere madre o coricarsi e morire.


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